GENE WOLFE
L'ARTIGLIO DEL CONCILIATORE
(The Claw Of The Conciliator, 1981)
Ma la forza scaturisce dalle vostre spine
e dai vostri abissi s'ode il suono della musica.
Le vostre ombre stanno nel mio cuore come rose
e le vostre notti sono come vino inebriante.
I
IL VILLAGGIO DI SALTUS
Il bellissimo viso di Morwenna aleggiava nell'unico raggio di sole, incorniciato dai capelli scuri come il mio mantello; il sangue che fuoriusciva dal collo sgocciolava sulle pietre. Le labbra si muovevano senza emettere alcun suono. Incorniciati fra quelle labbra, quasi fossi l'Increato che guarda attraverso lo squarcio dell'Eternità per contemplare il Mondo del Tempo, vedevo la fattoria, Stachys, suo marito, che si agitava in preda alla sofferenza nel letto e il piccolo Chad allo stagno intento a bagnarsi il volto febbricitante.
All'esterno Eusebia, l'accusatrice di Morwenna, ululava come una strega. Cercai di raggiungere le sbarre per farla tacere e immediatamente mi persi nell'oscurità della cella. Quando finalmente trovai la luce, mi ritrovai sulla strada verde che si allungava all'ombra della Porta della Misericordia. Il sangue sgorgava dalla guancia di Dorcas e, nonostante fossero in molti a gridare, mi sembrava di sentirlo colare a terra. Le Mura erano talmente possenti che separavano il mondo come la linea che si crea fra le copertine divide due libri. Dinnanzi a noi si stagliava una foresta che probabilmente esisteva fin dai tempi della creazione di Urth, con le piante alte come rupi e avviluppate nel verde più puro. Nel mezzo si snodava la strada, ricoperta di erba fresca; ovunque si vedevano corpi di uomini e di donne; una carriola in fiamme invadeva l'aria limpida di fumo.
Cinque cavalieri montavano destrieri dalle zanne ricurve incrostate di lazulite. Gli uomini indossavano elmi e cappe color blu d'indantrene, e reggevano lance le cui punte saettavano di fuochi azzurri; i loro volti si somigliavano più di quanto succeda tra fratelli.
La marea dei viaggiatori s'infrangeva contro i cavalieri come un'ondata contro uno scoglio, dividendosi in due. Dorcas venne separata dalle mie braccia e subito io sfoderai Terminus est per eliminare coloro che ci dividevano, ma mi resi conto che stavo per colpire il Maestro Malrubius: lui se ne stava tranquillo, insieme al mio cane Triskele, in mezzo a quei disordini. Quando lo vidi mi resi conto che stavo sognando e tale consapevolezza mi permise di capire, nonostante il sonno, che le precedenti visioni di lui non erano state semplici sogni.
Gettai indietro le coperte. Udivo tintinnare il carillon della Torre delle Campane. Era ora di alzarsi, correre in cucina infilandosi in fretta i vestiti, rimestare una pentola per il fratello Cuoco e sottrarre alla graticola una salsiccia... una salsiccia saporita, gonfia da scoppiare e leggermente bruciata. Era ora di lavarsi, di servire gli artigiani e di ripetere le lezioni prima di essere interrogati dal Maestro Palaemon.
Mi svegliai nel dormitorio degli apprendisti, ma era tutto sbagliato: una parete cieca si alzava dove avrebbe dovuto esserci l'oblò rotondo, una finestra quadrata stava al posto della paratia. Le brande strette e dure erano scomparse e il soffitto era troppo basso.
Ero sveglio. Dalla finestra penetravano gli aromi della campagna... molto somiglianti ai piacevoli odori dei fiori e delle piante che salivano dalla necropoli attraverso il muro franato, ma uniti al caldo fetore della stalla. Da un campanile non molto distante, le campane ripresero a richiamare quei pochi che ancora conservavano la fede alla preghiera per l'avvento del Nuovo Sole; ma era troppo presto e il vecchio sole si era appena levato dal volto il velo di Urth. A parte le campane, il villaggio era immerso nel silenzio.
Come Jonas aveva scoperto la notte precedente, la brocca dell'acqua conteneva vino. Ne usai un po' per ripulirmi la bocca e il sapore asprigno della bevanda risultò più gradevole di quello dell'acqua, che mi era tuttavia necessaria per lavarmi la faccia e lisciarmi i capelli. Prima di prendere sonno, avevo piegato il mantello, con l'Artiglio nel mezzo, per usarlo come cuscino. Lo stesi e poi, rammentando come Agia avesse cercato una volta di infilare la mano nella borsa che tenevo appesa alla cintura, riposi l'Artiglio nello stivale.
Jonas dormiva ancora. Generalmente, mi pare, le persone immerse nel sonno appaiono più giovani di quanto siano realmente, Jonas invece sembrava più vecchio... o forse semplicemente più antico: il suo volto, con il naso diritto e la fronte alta, ricordava gli antichi ritratti. Coprii di cenere il fuoco quasi spento e me ne andai senza svegliarlo.
Quando terminai di rinfrescarmi con l'acqua attinta al pozzo del cortile, la strada non era più tanto silenziosa e riecheggiava dello scalpitio prodotto dagli zoccoli nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia la notte precedente e del movimento dei longicorni. Gli animali erano più alti di un uomo, neri e pezzati, e roteavano gli occhi semiaccecati dal pelo ruvido che ricadeva loro sul muso. Il padre di Morwenna, rammentai, era stato un mandriano e forse quella mandria era proprio la sua, anche se mi pareva impossibile. Lasciai passare l'ultima di quelle bestie pesanti e osservai gli uomini. Erano tre, ricoperti di polvere e dall'aspetto molto comune, e brandivano pungoli dai puntali di ferro più alti di loro. Erano accompagnati dai loro cani robusti e attenti, di razza indefinibile.
Feci ritorno nella locanda e ordinai la colazione. Mi vennero serviti pane ancora caldo, burro appena fatto, uova d'anitra in salamoia e cioccolato al pepe sbattuto e ridotto a una spuma. Quest'ultimo particolare indicava che quella gente aveva usanze nordiche, ma io ancora non lo sapevo. L'oste, uno gnomo senza capelli che la sera prima mi aveva certo visto parlare con l'alcalde, ronzava intorno al mio tavolo asciugandosi il naso sulla manica, domandandomi se fossi contento di ogni portata — e per la verità era tutto molto buono — promettendomi cibi migliori per il pranzo e criticando la cuoca, sua moglie. Mi chiamava sieur, non perché mi avesse preso per un esultante in incognito, ma perché lì un torturatore, in qualità di braccio efficiente della legge, era una figura importante. Come la maggior parte dei paesani, non riusciva a immaginare che esistesse più di una classe sociale superiore alla propria.
— Il letto era comodo? Le coperte erano sufficienti? Ve ne faremo avere delle altre.
Avevo la bocca piena, così mi limitai ad annuire.
— Allora le porteremo. Tre basteranno? Tu e l'altro sieur state comodi nella stessa stanza?
Fui sul punto di rispondere che avrei preferito camere separate, sia perché credevo che l'Artiglio potesse essere una tentazione troppo grande anche per chi come Jonas non era un ladro, sia perché non ero abituato a dormire con altri, ma poi pensai che forse il mio compagno non si sarebbe potuto permettere una camera singola.
— Oggi ti fermerai qui, sieur? Quando sfonderanno il muro? Per togliere il bugnato basterebbe un muratore, ma hanno sentito Barnoch muoversi all'interno, e probabilmente ha ancora un po' di forza. Potrebbe anche aver trovato un'arma. E comunque, potrebbe mordere le dita del muratore!
— Non assisterò ufficialmente, ma è probabile che vada a vedere.
— Verranno tutti. — Il locandiere si sfregò le mani, che scivolavano come se fossero oliate. — Ci sarà una fiera, sai. L'ha annunciata l'alcalde. È particolarmente portato per gli affari, il nostro alcalde. Qualsiasi altro uomo ti vedrebbe qui nel mio locale e non gli verrebbe in mente nulla. O per lo meno niente più del fatto di giustiziare Morwenna. Ma il nostro alcalde no! Lui ha un gran fiuto e sa sfruttare al volo le opportunità che gli si presentano. Si potrebbe dire che la fiera gli sia balzata dalla mente in un baleno, con le tende colorate e i nastri, la carne arrosto e lo zucchero filato e tutto il resto. Oggi? Oggi apriremo la casa murata e tireremo fuori Barnoch come un tasso. Questo li scalderà e li farà accorrere da molte leghe di distanza. Poi resteranno a guardare mentre fai fuori Morwenna e quel campagnolo. Domani comincerai con Barnoch... generalmente inizi con i ferri roventi, vero? E tutti vorranno assistere. Il giorno dopo lo finirai e smonterai le tende. È inutile farli restare a lungo dopo che hanno speso i loro soldi, perché finirebbero per azzuffarsi e mendicare e così via. Tutto pianificato alla perfezione, tutto ben studiato! Il nostro alcalde sì che sa il fatto suo!
Finita la colazione uscii di nuovo e vidi i pensieri incantati dell'alcalde prendere forma. I campagnoli arrivavano in paese carichi di frutta, animali e pezze di stoffa tessuta in casa da vendere, e fra gli altri notai alcuni autoctoni che trasportavano pelli e schidionate di uccelli neri e verdi uccisi con la cerbottana. Rimpiansi di non possedere ancora il mantello che avevo comprato nella bottega di Agia, perché la mia cappa di fuliggine attirava molti sguardi. Stavo per fare ritorno alla locanda quando udii un rapido passo di marcia, un suono che conoscevo dai tempi in cui ascoltavo le esercitazioni militari nella Cittadella, e che non avevo più sentito da quando me ne ero andato.
Le bestie che avevo incontrato quella mattina erano scese al fiume ed erano state caricate sulle chiatte che le avrebbero trasportate fino ai macelli di Nessus. I soldati stavano arrivando dalla direzione opposta, dal fiume. Non so se erano destinati a qualche zona lontana dal Gyoll o se, più semplicemente, stavano esercitandosi con una marcia. Mentre si addentravano fra la folla sempre più fitta, venne gridato l'ordine di iniziare a cantare; quasi contemporaneamente colsi anche il secco rumore delle verghe e le urla degli sventurati che venivano colpiti.
Si trattava di kelau, armati con una fionda dall'impugnatura lunga due cubiti e muniti di una borsa di cuoio dipinto colma di proiettili incendiari. Pochissimi di loro sembravano più vecchi di me, ma le brigandine dorate, le ricche cinture e i foderi dei lunghi pugnali indicavano la loro appartenenza al corpo scelto degli erentarii. La loro canzone non parlava di battaglie o di donne, come la maggior parte dei canti militari: era invece un vero e proprio inno dei frombolieri.
Quand'ero un bambino, mia madre diceva:
«Asciuga le lacrime e vattene a letto;
io so che mio figlio andrà molto lontano,
nato sotto una stella cadente. »
Negli anni seguenti, mio padre diceva,
colpendomi con sberle e con botte:
«Non devi lagnarti, lagnarti per niente,
nato sotto una stella cadente. »
Un mago conobbi e quel mago mi disse:
«Io vedo un futuro per te tutto rosso,
di fuoco e sommosse, di lotte e di guerre,
nato sotto una stella cadente. »
Conobbi un pastore e questi mi disse:
«Noi pecore andiamo, guidate alla Porta
a cui gli angeli stanno, la Porta dell'Alba,
seguendo la stella cadente.»
E così via. Alcune strofe erano enigmatiche, o almeno così mi parevano, mentre altre erano più semplicemente comiche e altre ancora erano state composte con l'unico scopo di far risaltare la cadenza della marcia.
— Sono splendidi, vero? — Il locandiere mi arrivava alle spalle. — Gente del sud... Vedi? Molti di loro hanno i capelli gialli e la pelle chiazzata. Laggiù sono abituati a sopportare il freddo, ed è necessario che lo siano, fra quelle montagne. Comunque, a sentirli cantare viene quasi voglia di unirsi a loro. Quanti pensi che siano, in tutto?
In quel momento comparvero i muli che trasportavano i bagagli e le vettovaglie, carichi di razioni e incitati dai soldati con la punta delle spade. — Duemila. Forse duemilacinquecento.
— Grazie, sieur. Mi piace tenerne il conto. Non puoi immaginare quanti ne ho visti passare di qui. Ma quelli che fanno ritorno sono sempre pochi. Bene, la guerra è così, penso. Io cerco di convincermi che sono ancora là... dove sono andati, intendo dire... ma sia tu che io sappiamo bene che molti non torneranno più. Comunque, a sentirli cantare viene proprio voglia di unirsi a loro.
Gli domandai se avesse qualche notizia della guerra.
— Oh, sì, sieur. Oramai la seguo da anni, anche se la maggior parte delle battaglie non risolvono niente, se capisci cosa voglio dire. Sembra che non si avvicinino mai molto a noi, e che non se ne allontanino mai molto, se è per questo. Io credo che il nostro Autarca e il loro capo scelgano una località per combattere e poi, quando è tutto finito, se ne tornino a casa. Mia moglie, da quella stupida che è, non pensa che si tratti di una vera guerra.
La folla si era richiusa dietro l'ultimo conducente dei muli e si stava infittendo gradatamente. Molti uomini indaffarati montavano chioschi e padiglioni, restringendo la strada e rendendo ancora più folta la calca; le maschere irsute, sulla cima di pali altissimi, parevano spuntare all'improvviso dal terreno come piante.
— E allora secondo tua moglie dove vanno tutti quei soldati? — domandai al locandiere.
— A cercare Vodalus, secondo lei. Come se l'Autarca, le cui mani grondano oro e i cui nemici si prosternano a baciargli le caviglie, potesse occupare l'intero esercito per dare la caccia a quel bandito!
Non udii più nulla, dopo Vodalus.
Farei qualunque cosa per poter diventare come voi, che ogni giorno vi lamentate perché i vostri ricordi impallidiscono. I miei restano sempre vivi come al primo istante e così, non appena li richiamo alla memoria, mi affascinano e mi travolgono.
Lasciai il locandiere, mi sembra, e mi incamminai fra la folla di contadini che si urtavano a vicenda e fra i venditori ambulanti; ma non vedevo nessuno. Avvertivo invece, sotto i piedi, i sentieri della necropoli cosparsi di ossa e vedevo attraverso le volute della nebbia salita dal fiume la snella sagoma di Vodalus nell'atto di consegnare la pistola alla sua amante e di sfoderare la spada. La stravaganza di quel gesto mi colpì nel ricordo (è molto triste essere diventato uomo). L'individuo che in cento manifesti clandestini aveva dichiarato di combattere in nome delle antiche consuetudini e della grande civiltà del passato che ormai Urth ha perduto, aveva rinunciato all'arma più caratteristica di quella civiltà.
Se i miei ricordi del passato restano immutati, forse è solo perché tale passato esiste solo nella mia memoria. Vodalus, che come me desiderava farlo risorgere, continuava a essere una creatura del presente. Il fatto che possiamo essere solo quello che siamo resta il nostro imperdonabile peccato.
Sicuramente, se io fossi stato uno di voi, uno di quelli che dimenticano, quel mattino lo avrei respinto, mentre mi facevo largo fra la gente a gomitate, e in tal modo avrei sfuggito questa morte in vita che mi perseguita mentre scrivo. O magari ci sarei riuscito solo in parte. Quasi sicuramente non ce l'avrei fatta per niente. E comunque le emozioni suscitate da quel ricordo erano troppo intense. Ero prigioniero dell'ammirazione che avevo provato una volta, come una mosca rinchiusa nell'ambra resta prigioniera di un pino che non esiste più da tantissimo tempo.
II
L'UOMO NEL BUIO
La casa del bandito era perfettamente identica a tutte le altre del villaggio. Era fatta di pietra cava, a un solo piano, con il tetto piatto e robusto dello stesso materiale. La porta e l'unica finestra che io riuscivo a vedere dalla strada erano murate in maniera rudimentale. Un centinaio di curiosi o forse di più accorsi per la fiera stazionavano davanti alla casa e parlavano indicandola. Dall'interno non arrivava il minimo rumore e dal comignolo non usciva un filo di fumo.
— Qui lo fanno spesso? — chiesi a Jonas.
— Fa parte della tradizione. Avrai sentito il detto: Una leggenda, una falsità e una verosimiglianza danno origine a una tradizione.
— A me pare che sia abbastanza facile uscirne. Si potrebbe sfondare una finestra o magari il muro stesso, durante la notte, o scavare un passaggio sotterraneo. Logicamente, se si tratta davvero di una soluzione adottata spesso e se lui era veramente una spia di Vodalus, avrebbe potuto prevederlo e procurarsi degli attrezzi, oltre a una scorta di viveri e bevande.
Jonas scosse la testa. — Prima di murare porte e finestre, fanno un giro per tutta la casa e portano via tutto quello che trovano: cibi, attrezzi, lampade e tutti gli eventuali oggetti di valore.
Una voce tonante disse: — Esatto, e lo facciamo perché ci vantiamo di essere dotati di buon senso. — Si trattava dell'alcalde, che si era avvicinato a noi senza farsi notare. Lo salutammo e lui ci ricambiò. Era un uomo massiccio e squadrato, con il volto aperto reso brutto dall'espressione astuta degli occhi. — Mi sembrava di averti riconosciuto, mastro Severian, nonostante questi vestiti sgargianti. Sono nuovi? Sembra di sì. Se non ti piacciono ti prego di dirmelo. Noi cerchiamo di avere sempre un commercio onesto alle nostre fiere. In tal modo garantiamo gli affari. Se non sei contento getteremo il mercante nel fiume, chiunque sia, puoi esserne sicuro. È sufficiente trattarne in tal modo uno o due all'anno perché gli altri se ne stiano tranquilli.
L'alcalde tacque, quindi indietreggiò di qualche passo e mi osservò con maggiore attenzione, annuendo tra sé come se fosse veramente impressionato.
— Ti stanno bene quei vestiti. Devo ammettere che hai una splendida figura. E hai anche un bel viso, a parte forse il pallore eccessivo, che ben presto il nostro caldo clima del nord provvederà a eliminare. Comunque, i vestiti ti stanno bene. Se ti domanderanno dove li hai comperati, puoi rispondere che li hai trovati alla Fiera di Saltus. Sono discorsi, questi, che non nuocciono mai.
Promisi che l'avrei fatto, nonostante la mia preoccupazione fosse rivolta a Terminus est che avevo nascosto nella locanda più che al mio aspetto e all'eventuale durata dei vestiti che avevo comperato da un rigattiere.
— Immagino che tu e il tuo assistente siate venuti per vederci catturare il miscredente. Entreremo non appena Mesmin e Sebald avranno portato il palo. Quando abbiamo diffuso la notizia, spiegando cosa intendevamo fare, lo abbiamo definito ariete, ma in realtà non è altro che un tronco d'albero, e nemmeno tanto grosso... altrimenti il villaggio dovrebbe ricompensare troppi uomini per trasportarlo. Sono sicuro che non sapete niente di quanto accadde qui diciotto anni fa.
Jonas e io scrollammo la testa.
L'alcalde gonfiò il petto, come fanno generalmente i politicanti quando possono pronunciare qualcosa più di un paio di frasi. — Io lo ricordo benissimo, nonostante allora non fossi che un ragazzino. C'era una donna. Ho scordato il suo nome, ma la chiamavano madre Pyrexia. La sua casa venne murata con le pietre, proprio come questa, e furono anche le stesse persone a farlo. Ma eravamo alla fine dell'estate, l'epoca della raccolta delle mele, e questo lo rammento bene, perché fra la gente c'erano alcuni che bevevano il sidro nuovo, e io sgranocchiavo una mela appena colta mentre guardavo.
«L'anno seguente, quando il mais era maturo, qualcuno volle comperare la casa. La proprietà passa al municipio, sapete. È in tal modo che finanziamo il lavoro: quelli che lo eseguono si prendono come compenso tutto quello che riescono a trovare, mentre il municipio si prende la casa e il terreno.
«Insomma, per farla breve, modellammo un tronco a forma di ariete e sfondammo la porta murata, tutto per bene, convinti di raccogliere le ossa della vecchia e di consegnare la casa al nuovo proprietario.» L'alcalde si fermò e scoppiò a ridere, rovesciando la testa all'indietro. La sua risata aveva qualcosa di spettrale, ma forse era dovuto al fatto che il chiasso della folla intorno la attutiva.
— Non era morta la vecchia? — domandai.
— Dipende da quello che intendi. Posso dire una cosa... una donna rimasta chiusa in un luogo buio per lungo tempo può diventare molto strana, esattamente come sono strane le cose che si ritrovano nel legno marcio, fra i grandi alberi. Qui a Saltus siamo quasi tutti minatori e siamo abituati a tali stranezze, ma quella volta scappammo a prendere le torce. Ecco, a quella cosa non piaceva la luce, e nemmeno il fuoco.
Jonas mi toccò la spalla indicandomi un movimento in mezzo alla folla. Alcuni uomini dall'aria decisa si stavano facendo largo in fondo alla strada. Nessuno di loro indossava elmo o corazza, ma molti erano muniti di giavellotti e gli altri di bastoni fasciati di bronzo. Mi fecero venire in mente le guardie volontarie che tanto tempo prima avevano lasciato entrare nella necropoli me, Drotte, Roche ed Eata. Dietro di loro comparvero quattro uomini che sorreggevano il tronco a cui aveva accennato l'alcalde, un tronco ruvido del diametro di circa due spanne e lungo sei cubiti.
Li accolse un'esclamazione soffocata della folla, subito seguita da voci più alte e da qualche applauso amichevole. L'alcalde si congedò e andò a dirigere le operazioni. Innanzitutto ordinò agli uomini armati di bastone di tenere libero un certo spazio intorno alla porta della casa murata e quando si avvide che io e Jonas ci avvicinavamo per vedere meglio, usò la sua autorità per costringere la folla a lasciarci passare.
Avevo creduto che una volta sistemati gli uomini si sarebbe proceduto all'operazione senza tante cerimonie, ma non avevo tenuto conto dell'alcalde. All'ultimo momento salì sul gradino della casa murata, sventolò il cappello per ottenere l'attenzione generale e tenne un discorsetto.
— Benvenuti, visitatori e cittadini! Nel tempo di tre soli respiri ci vedrete abbattere questa barriera e trascinare fuori il bandito Barnoch. Morto o vivo, come è più probabile dal momento che non è rimasto richiuso molto a lungo. Voi sapete bene che cosa ha fatto. Ha collaborato con i cultellarii del traditore Vodalus, tenendoli al corrente sulle partenze e gli arrivi delle loro probabili vittime! Sono certo che state pensando, e a ragione, che una simile colpa non meriti alcuna pietà. Sì, dico io! Sì, diciamo noi tutti! Centinaia o forse migliaia di persone giacciono in tombe anonime per colpa di questo Barnoch. Centinaia o forse migliaia di persone hanno incontrato un destino peggiore della morte!
«Tuttavia io vi invito a riflettere un istante, prima che queste pietre vengano abbattute. Vodalus ha perso una spia. Ne troverà un'altra. In una notte silenziosa, tra non molto tempo, uno straniero avvicinerà qualcuno di voi. Senza dubbio avrà la lingua sciolta...
— Come te! — lo interruppe qualcuno, fra le risate della folla.
— Molto più di me... io non sono che un rozzo minatore, come molti di voi sanno bene. Avrà la lingua molto sciolta, sarà molto convincente, devo dire, e probabilmente disporrà di denaro in abbondanza. Prima che voi gli rivolgiate anche solo un cenno, voglio che vi ricordiate della casa di Barnoch, così come è adesso, con la porta murata. Pensate alla vostra casa, senza porte e senza finestre, e con voi chiusi dentro.
«Poi riflettete su quello che farà Barnoch quando lo tireremo fuori. Perché voglio farvi capire, soprattutto a voi forestieri, che quanto vedrete oggi è solo l'inizio di quello che offrirà la fiera di Saltus! Per i prossimi giorni abbiamo prenotato uno dei migliori professionisti di Nessus! Saranno giustiziate almeno due persone, in maniera del tutto regolamentare, con la testa mozzata da un unico colpo di spada. Una di esse è una donna, perciò useremo la sedia! Ecco uno spettacolo che ben pochi di voi avranno già visto, nonostante siate in molti a vantare un'educazione raffinata e cosmopolita. E vedrete quest'uomo... — L'alcalde si interruppe e picchiò con il palmo della mano aperta le pietre riscaldate dal sole che ostruivano la porta. — Vedrete questo Barnoch portato al patibolo da una guida esperta! È probabile che abbia praticato nel muro un piccolo foro; succede spesso, e in tal caso mi può sentire.
Alzò la voce fino a urlare: — Se puoi, Barnoch, tagliati immediatamente la gola! Se non lo farai, desidererai di essere morto di fame da tanto tempo!
Vi fu un istante di silenzio. Io pativo terribilmente al pensiero di dover praticare la mia arte su un seguace di Vodalus. L'alcalde sollevò il braccio destro sopra la testa, quindi lo riabbassò con un gesto perentorio. — Forza, ragazzi, metteteci tutto il vostro impegno!
I quattro che sorreggevano l'ariete contarono uno, due, tre come se fossero già stati d'accordo, poi corsero contro la porta murata. Quando i primi due salirono sul gradino, persero parte dello slancio. L'ariete batté contro le pietre con un tonfo risonante, ma non ottenne nulla.
— Bene, ragazzi — disse l'alcalde. — Riprovateci. Fate vedere a tutti di che stirpe sono gli uomini di Saltus.
I quattro avanzarono una seconda volta e i due che stavano davanti affrontarono il gradino con maggiore abilità; le pietre che chiudevano la porta tremarono sotto la violenza dell'urto, e dalla calce si levò una nuvola di finissima polvere. Dalla folla fuoriuscì un volontario, un uomo massiccio con la barba nera, e si unì ai quattro che sorreggevano l'ariete. Riprovarono, tutti e cinque; il rumore non fu molto più forte, ma fu seguito da uno scricchiolio, come di ossa che si rompessero. — Ancora una volta! — disse l'alcalde.
Aveva ragione. Il colpo seguente fece precipitare all'interno della casa la pietra colpita dal tronco, aprendo un varco grande quanto la testa di un uomo. Da quel momento i volontari che spingevano l'ariete smisero di prendere la rincorsa: fecero cadere altre pietre muovendo il tronco con le braccia fino a quando l'apertura fu abbastanza estesa da lasciar passare un uomo.
Qualcuno che prima non avevo notato aveva portato diverse torce e un ragazzo corse in una casa vicina per accenderle, quindi vennero consegnate agli uomini armati di giavellotti e di bastone. Rivelando un coraggio maggiore di quello che io avrei attribuito a quei suoi occhi astuti, l'alcalde estrasse dalla camicia una corta roncola e si fece avanti per primo. Noi spettatori ci accalcammo dietro gli uomini armati e io e Jonas, che eravamo nella prima fila dei curiosi, raggiungemmo quasi subito il varco.
L'aria era maleodorante, molto più di quanto avessi immaginato. Dappertutto si vedevano mobili sfasciati, come se Barnoch avesse chiuso a chiave cassetti e armadi prima che arrivassero gli uomini a murargli la casa e quelli avessero dovuto rompere tutto per recuperare il bottino. Su un tavolo zoppo vidi la cera di una candela consumata fino al legno. Alle mie spalle la gente premeva per farci avanzare e io, mi resi conto con stupore, premevo per tenerla indietro.
In fondo alla casa si udì uno scalpiccio, passi affrettati e incerti... un urlo... poi un grido acuto, inumano.
— L'hanno preso! — esclamò qualcuno dietro di me, e sentii che l'annuncio passava di bocca in bocca.
Un uomo piuttosto grasso, probabilmente un contadino, arrivò correndo dall'oscurità con in mano una torcia e un bastone. — Levatevi di mezzo! Indietro, tutti quanti! Lo stanno portando fuori!
Non so che cosa mi aspettassi di vedere... forse un essere abominevole con i capelli aggrovigliati. Invece mi trovai di fronte uno spettro. Barnoch era alto, nonostante fosse curvo e magrissimo, con la pelle talmente pallida che luccicava, come luccica il legno putrefatto. Era glabro, completamente calvo e senza barba; nel pomeriggio mi sarebbe stato detto dai suoi guardiani che aveva preso l'abitudine di strapparsi i peli. La parte più terrificante del suo aspetto erano gli occhi: sporgenti, apparentemente ciechi, scuri come l'ascesso nero della bocca. Quando parlò, avevo la testa voltata dall'altra parte, ma capii che si trattava della sua voce. — Mi libererà! — disse. — Vodalus! Vodalus verrà!
Come avrei voluto, in quell'istante, non essere mai stato imprigionato a mia volta! Quelle parole mi riportarono alla memoria tutti i giorni senz'aria trascorsi nella segreta sotto la Torre di Matachin. Anch'io avevo sognato che Vodalus venisse a liberarmi, avevo sognato una rivoluzione che spazzasse via il fetore animalesco e la degenerazione della nostra epoca per restaurare la grande, magnifica cultura che un tempo era stata il patrimonio di Urth.
E a salvare me non era stato Vodalus né il suo misterioso esercito, bensì il Maestro Palaemon, oltre a Drotte, Roche e i miei pochi altri amici che avevano convinto i confratelli che uccidermi sarebbe stato troppo pericoloso e trascinarmi dinnanzi a un tribunale troppo disonorevole.
Nessuno avrebbe salvato Barnoch. Io, che avrei dovuto essere un suo alleato, lo avrei marchiato, lo avrei straziato alla ruota e infine gli avrei tagliato la testa. Mi sforzai di convincermi che forse aveva agito solo per i soldi, ma proprio in quel momento un oggetto metallico, certamente la punta d'acciaio di un giavellotto, batté contro una pietra e a me sembrò di sentire ancora il tintinnio prodotto dalla moneta regalatami da Vodalus quando l'avevo lasciata cadere nel nascondiglio del mausoleo in rovina.
Succede, quando la niente è tanto concentrata in un ricordo, che gli occhi, abbandonati a se stessi, colgano in mezzo a una massa di dettagli un particolare e lo evidenzino con una chiarezza che l'attenzione non è mai in grado di dare. Capitò anche a me. Nella marea in movimento dei volti oltre la porta, ne colsi uno rivolto verso l'alto e rischiarato dal sole. Il volto di Agia.
III
LA TENDA DEL FENOMENO VIVENTE
Quell'istante si cristallizzò come se noi due, e tutti quelli che ci stavano intorno, facessimo parte di un dipinto. Il volto sollevato di Agia, i miei occhi spalancati; rimanemmo così, attorniati dalla folla dei campagnoli con i loro vestiti sgargianti e i fagotti colorati. Poi io mi mossi e lei scomparve. L'avrei raggiunta, se avessi potuto, ma faticai a farmi largo in mezzo ai curiosi e mi ci vollero circa cento battiti del cuore prima di arrivare nel punto in cui l'avevo vista.
Agia era svanita e la gente vorticava e mutava come l'acqua sotto la prua di una barca. Barnoch era stato portato all'aperto e urlava nel vedere il sole. Afferrai per la spalla un minatore e gli urlai una domanda, ma quello non aveva notato la giovane donna che poco prima era vicino a lui e non aveva idea della direzione da lei presa. Mi accodai alle persone che seguivano il prigioniero fino a quando non mi fui accertato che Agia non era fra loro; poi, dal momento che non sapevo cos'altro fare, iniziai a perlustrare tutta la fiera, curiosando nelle tende e nei chioschetti e interrogando le contadine che erano venute a vendere i croccanti pani al cardamomo, e i venditori di carne calda.
Tutto questo, nel momento in cui lo scrivo tracciando adagio un filo di inchiostro scarlatto nella Casa Assoluta, mi appare calmo e addirittura metodico. Ma non corrisponde affatto alla verità dei fatti. Ero affannato e sudato mentre portavo avanti la mia ricerca, gridando domande quasi senza aspettare la risposta. Come un viso scorto nel sogno, il volto di Agia aleggiava davanti alla mia mente: le guance larghe e piatte e il mento delicatamente arrotondato, la pelle ricoperta di efelidi, abbronzata, e gli occhi allungati, ridenti, ironici. Non riuscivo a capire per quale motivo si trovasse lì; sapevo solo che c'era, e che il rivederla aveva risvegliato l'angoscia provocata in me dal suo urlo.
— Hai visto una donna alta così, con i capelli castani? — Lo domandavo a tutti, come il duellante che ripeteva «Cadroe delle Diciassette Pietre», fino a quando la frase perse il suo significato, simile al canto della cicala.
— Sì. Tutte le ragazze di campagna vengono qui.
— Sai il suo nome?
— Una donna? Ma certo, te ne posso far avere una.
— Dove l'hai perduta?
— Non ti preoccupare, la ritroverai presto. La fiera non è abbastanza grande perché ci si possa perdere veramente. Non avevate per caso appuntamento in qualche posto? Bevi un po' del mio tè... sembri così stanco.
Cercai alla rinfusa una moneta.
— Non sei obbligato a pagare. Guadagno già abbastanza. Va bene, se proprio insisti. Solo un aes. Ecco.
La vecchia cercò nel grembiule e tirò fuori una manciata di monetine, quindi versò il te bollente in una tazza di terracotta e mi porse una cannuccia di metallo vagamente argentato. La rifiutai con un cenno.
— È pulita. Lavo sempre tutto, dopo che un cliente ha bevuto.
— Non ci sono abituato.
— Allora stai attento... il bordo scotta. Hai cercato vicino alla giuria? Là c'è sempre tanta gente.
— Dove c'è anche il bestiame? Sì. — Il tè in realtà era maté, arricchito di spezie e piuttosto amaro.
— Non sa che la stai cercando?
— Non penso. Anche se mi avesse visto, non avrebbe potuto riconoscermi. Io... generalmente non indosso vestiti come questi.
La vecchia sbuffò e rinfilò una ciocca di capelli grigi sotto il fazzoletto che le copriva la testa. — Alla fiera di Saltus? No, logicamente! Tutti mettono i vestiti più belli per una fiera, e una ragazza con un po' di buon senso lo capirebbe. Hai guardato giù vicino all'acqua, dove tengono incatenato il prigioniero?
Scossi la testa. — Pare che sia scomparsa.
— Ma tu non hai ancora perso la speranza di ritrovarla. Lo capisco dal modo con cui fissi la gente che passa invece di guardare me. Bene, auguri. Spero che tu riesca a incontrarla, anche se pare che qui intorno ultimamente succedano cose strane. Hanno catturato un uomo verde, lo sapevi? Lo tengono là, in quella tenda. Gli uomini verdi sanno tutto, dice la gente, purché si riesca a farli parlare. E poi c'è la cattedrale. Sono certa che l'avrai saputo.
— La cattedrale?
— Ho sentito dire che non si tratta di una vera e propria costruzione come quelle che avete voi in città... capisco che sei un cittadino dal modo di bere il tè... Ma è l'unica cattedrale che la maggior parte di noi, nei dintorni di Saltus, abbia mai avuto modo di vedere. Ed era molto bella, con le lampade appese e finestre nelle pareti di seta colorata. Io non credo... o meglio, ecco, se il Pancreatore non si interessa di me, io non mi interesso di lui. Perché lo dovrei fare? Comunque, è un vero peccato quello che hanno fatto, se le notizie che circolano dicono il vero. L'hanno fatta bruciare, sai.
— Stai parlando della Cattedrale delle Pellegrine?
La vecchia assentì con aria sapiente. — Ecco, l'hai fatto anche tu. Hai commesso il loro stesso errore. Non era la Cattedrale delle Pellegrine, bensì la Cattedrale dell'Artiglio. Perciò non avevano nessun diritto di incendiarla.
— Hanno riacceso il fuoco — bisbigliai rivolto a me stesso.
— Come hai detto, scusa? — La vecchia tese l'orecchio. — Non ho sentito.
— Ho detto che l'hanno fatta bruciare. Devono aver dato fuoco alla paglia del pavimento.
— È esattamente quello che si dice in giro. Non hanno fatto altro che starsene lì a guardarla bruciare. È salita ai Pascoli Infiniti del Nuovo Sole, lo sai?
Sul lato opposto della strada, un uomo iniziò a percuotere un tamburo. Quando fece una pausa, dissi: — So che alcuni sostengono di averla vista innalzarsi nell'aria.
— Oh, sì, certo che si è innalzata nell'aria. Quando il marito di mia nipote lo ha saputo, è rimasto stupefatto per mezza giornata. Poi ha incollato una specie di cappello di carta e lo ha tenuto sopra il mio fornello, e si è sollevato nell'aria: allora il marito di mia nipote ha concluso che non era una cosa tanto incredibile che la cattedrale si fosse sollevata nell'aria, che non si trattava di un miracolo. Questo dimostra quanto sia sciocco... non ha nemmeno pensato che le cose stanno così proprio per permettere alla cattedrale di sollevarsi come ha fatto. Lui non riesce a cogliere la Mano nella natura.
— Non l'ha vista con i suoi occhi? — chiesi alla vecchia. — La cattedrale, intendo.
Lei non capì.
— Oh, l'ha vista almeno una dozzina di volte, quando sono passate di qui.
La cantilena dell'uomo con il tamburo, analoga a quelle che cantava il dottor Talos anche se priva dell'intelligenza maliziosa del dottore, interruppe la nostra conversazione. — Sa tutto! Conosce tutti! È verde come una bacca d'uva spina! Venite, venite a vedere!
BUM! BUM! BUM!
— Pensi che l'uomo verde sia in grado di dirmi dove trovare Agia?
La vecclùa sorrise. — Allora lei si chiama così? Bene, adesso lo so, se mi capitasse di sentirla nominare. È probabile che l'uomo verde lo sappia. Se hai dei soldi, perché non provi a domandarglielo?
Infatti, perché? pensai.
— Viene dalle giungle del nord! Non mangia mai! È parente dei cespugli e dell'erba! — BUM! BUM! — Il futuro e il passato lontano per lui sono la stessa cosa!
Quando vide che mi stavo avvicinando alla tenda, l'imbonitore smise di suonare il tamburo. — Un solo aes per vederlo, due per parlargli, tre per rimanere da soli con lui.
— Da soli per quanto tempo? — chiesi, mentre prendevo tre aes di rame. Un ghigno ironico passò sulla faccia dell'imbonitore. — Per tutto il tempo che vuoi. — Gli diedi le monete ed entrai nella tenda.
Certo l'imbonitore credeva che non avrei resistito a lungo, perciò io mi ero aspettato un odore insopportabile o qualcosa di altrettanto sgradevole. Ma non c'era niente di tutto quello, solo un tenue odore di fieno. Nel mezzo della tenda, in un fascio di raggi solari polverosi che penetravano da un varco aperto nel tetto di tela, era incatenato un uomo la cui carnagione ricordava la giada pallida. Indossava un gonnellino di foglie, oramai quasi appassite; vicino a lui vidi un vaso di argilla pieno fino all'orlo di acqua pura.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante. Io mi fermai a guardarlo. L'uomo fissava la terra. — Non è vernice — dissi. — E non credo si tratti di una tintura. E non hai più peli dell'uomo che ho visto uscire dalla casa murata.
L'uomo verde mi fissò, poi riabbassò lo sguardo. Persino il bianco dei suoi occhi aveva delle sfumature verdognole.
Gli tesi una trappola. — Se sei veramente vegetale, dovresti avere erba al posto dei peli.
— No. — La sua voce era dolce, quasi femminile a parte la profondità.
— Allora sei un vegetale? Sei una pianta parlante?
— Tu non sei un campagnolo.
— Ho lasciato Nessus da qualche giorno.
— E sei anche istruito.
Pensai al Maestro Palaemon, poi al Maestro Malrubius e alla mia povera Thecla e scrollai le spalle. — So leggere e scrivere.
— Eppure non sai niente di me. Non sono un vegetale parlante, come i tuoi occhi dovrebbero confermare. Se anche una pianta seguisse la strada dell'evoluzione, l'unica fra i molti possibili milioni di percorsi, che porta all'intelligenza, non riuscirebbe a modellare il legno e le foglie per creare un essere umano.
— Si potrebbe dire lo stesso delle pietre, eppure esistono le statue.
Nonostante il suo aspetto disperato, ancora più triste di quello del mio amico Jonas, una specie di sorriso gli increspò gli angoli della bocca. — Esatto. Non hai una buona preparazione scientifica, ma sei molto più istruito di quanto tu stesso immagini.
— Al contrario, la mia istruzione è stata prettamente scientifica... anche se riguardava tutt'altro che queste speculazioni astratte. Cosa sei, allora?
— Un grande veggente. Un grande bugiardo, come tutti gli uomini con i piedi legati.
— Se mi dici che cosa sei, cercherò di aiutarti.
L'uomo verde mi fissò, e fu come se un'erba altissima avesse aperto gli occhi rivelando un aspetto umano. — Ti credo — disse. — Per quale motivo tu solo, fra tutte le centinaia di persone che entrano nella tenda, conosci la pietà?
— Io non conosco la pietà; ma mi è stato instillato il rispetto per la giustizia, e conosco abbastanza bene l'alcalde di questo villaggio. Un uomo verde è pur sempre un uomo; e se è schiavo, il suo padrone deve dimostrare come lo sia diventato e in che modo ne sia venuto in possesso.
— Sono uno stupido, penso, a fidarmi di te — disse l'uomo verde. — Eppure è così. Io sono un uomo libero, venuto dal futuro per esplorare la vostra epoca.
— Non è possibile.
— Il colore verde che tanto vi stupisce, è solo quella che voi chiamate schiuma degli stagni. Noi l'abbiamo modificata in maniera da poterla introdurre nel sangue, e così facendo abbiamo finalmente posto fine alla lunga lotta dell'umanità contro il sole. In noi, le minuscole pianticelle vivono e muoiono, e i nostri organismi se ne nutrono senza pretendere altro cibo. Le carestie e le fatiche necessarie per coltivare le piante sono finite per sempre.
— Ma ti serve il sole.
— Infatti — disse l'uomo verde. — E qui non ce n'è abbastanza. Nella mia epoca il giorno è più luminoso.
Quella semplice frase mi emozionò come non mi era più successo dal giorno in cui avevo visto per la prima volta la cappella scoperchiata nella Corte Rotta, alla Cittadella. — Allora il Nuovo Sole verrà, come è stato predetto — dissi. — E se stai dicendo la verità per Urth ci sarà una seconda possibilità.
L'uomo verde rovesciò la testa all'indietro e rise. Molto tempo dopo avrei sentito il suono che emette l'alzabo quando si aggira sui tavolieri innevati delle montagne; la sua risata è terribile, ma quella dell'uomo verde lo fu ancora di più, e io arretrai. — Non sei umano — dissi. — Adesso non lo sei, anche ammesso che un tempo tu lo fossi.
Rise ancora. — E pensare che avevo fiducia in te. Sono un essere sfortunato. Ero convinto di essermi ormai rassegnato a morire qui, in mezzo a gente che non è altro che polvere ambulante; invece al più piccolo filo di speranza la rassegnazione mi ha abbandonato. Io sono un vero uomo, amico. Sei tu a non esserlo; e fra pochi mesi io sarò morto.
Mi vennero in mente i suoi simili. Avevo visto molte volte gli steli gelati dei fiori estivi lanciati dal vento contro i mausolei della nostra necropoli. — Capisco. Stanno per arrivare i giorni caldi del sole e quando se ne andranno tu te ne andrai insieme a loro. Produci i semi finché sei in tempo.
L'uomo ritornò serio. — Tu non mi credi, e non riesci nemmeno a capire che sono un uomo come te, eppure mi compatisci. Forse hai ragione, e per noi è arrivato un nuovo sole, ma dal momento che è venuto lo abbiamo dimenticato. Se mai riuscirò a tornare nella mia epoca, parlerò di te agli altri.
— Se veramente vieni dal futuro, per quale motivo non riesci a farvi ritorno e salvarti?
— Perché sono incatenato, come puoi vedere. — L'uomo allungò la gamba per mostrarmi l'anello che gli avvolgeva la caviglia. La gamba color berillo era gonfia, come mi è capitato di vedere gonfia la corteccia di una pianta cresciuta attraverso un cerchio di ferro.
Il telone d'ingresso della tenda si sollevò e apparve l'imbonitore. — Sei ancora qui? Ci sono altri, fuori. — Fissò l'uomo verde con aria significativa e si ritirò.
— Allora ti devo congedare, altrimenti chiuderà lo sfiatatoio che lascia passare la luce del sole. Metto sempre in fuga i visitatori predicendo il loro futuro e adesso lo farò con te. Sei giovane e forte. Ma prima che questo mondo abbia girato dieci volte intorno al sole, tu sarai meno forte e non recupererai più la tua forza. Se avrai dei figli, avrai generato i tuoi nemici. Se...
— Basta! — dissi io. — Quella che mi stai predicendo è la sorte di tutti gli uomini. Rispondi sinceramente a una sola domanda e me ne andrò. Sto cercando una donna di nome Agia. Dove si trova?
L'uomo roteò per un momento gli occhi verso l'alto, mostrando sotto le palpebre due falci sottili di un verde pallido. Fu colpito da un leggero tremito; si alzò e allungò le braccia, protendendo le dita come ramoscelli, poi disse, lentamente: — Al di sopra del suolo.
Il tremito cessò e l'uomo tornò a sedersi: sembrava molto più vecchio e più pallido.
— Allora sei solamente un impostore — gli dissi, girandogli la schiena. — E io sono stato uno stupido ingenuo perché ti ho creduto, anche se solo per poco.
— No — sussurrò l'uomo verde. — Ascolta. Nel venire qui sono passato attraverso il vostro futuro e alcuni fatti mi sono rimasti impressi, anche se in maniera confusa. Ti ho detto solo la verità... e se veramente sei amico dell'alcalde di questo villaggio, ti dirò anche una cosa da riferire a lui, qualcosa che ho appreso dalle domande dei miei visitatori. Ci sono degli uomini armati che stanno cercando di liberare un tale di nome Barnoch.
Estrassi la mia cote dalla borsa che tenevo appesa alla cintura, la spezzai sulla sommità del palo a cui era legata la catena e gliene porsi una parte. L'uomo non capì subito che cosa fosse, poi vidi che comprendeva, perché sembrò irradiare una grande gioia, come se già si potesse godere la luce più intensa del suo giorno.
IV
IL MAZZO DI ROSE
Quando uscii dalla tenda dell'imbonitore, sollevai lo sguardo verso il sole. L'orizzonte occidentale aveva già raggiunto la metà del cielo ed entro un turno di guardia o anche meno sarebbe giunto il momento di fare la mia apparizione. Agia era scomparsa e ogni speranza di raggiungerla era andata perduta negli istanti frenetici che avevo trascorso correndo da una parte all'altra della fiera; ma nonostante tutto mi consolavano la profezia dell'uomo verde che, secondo la mia interpretazione, significava che io e Agia ci saremmo incontrati un'altra volta prima di morire, e il pensiero che, come aveva assistito all'apertura della casa murata, così sarebbe forse stata presente anche all'esecuzione di Morwenna e del ladro di bestiame.
Queste riflessioni mi tennero occupata la mente durante il ritorno alla locanda. Ma prima di raggiungere la camera che dividevo con Jonas, il ricordo di Thecla e della mia elevazione ad artigiano presero il sopravvento, suscitati dalla necessità di spogliarmi per rivestire la cappa di fuliggine della mia corporazione. Tanto grande era la forza dell'associazione esercitata da quell'abito quando era ancora appeso nella stanza e da Terminus est che era sempre nascosta sotto il materasso.
Quando ancora ero al servizio di Thecla, mi divertivo a prevedere gran parte dei discorsi che avrebbe fatto, specialmente l'inizio, basandomi sul dono che avevo per lei entrando nella sua cella. Se si trattava di qualche pietanza gustosa sottratta in cucina, per esempio, ne nasceva una descrizione dei pranzi nella Casa Assoluta e il genere di cibo che avevo portato rievocava addirittura le caratteristiche del pranzo descritto: in caso di carne, un pranzo di caccia con le grida e i barriti della selvaggina catturata viva che salivano dal recinto del macello, le conversazioni sui bracchetti, i falchi e i leopardi da caccia; in caso di dolci, Thecla raccontava un pranzo privato offerto da una delle grandi castellane per pochi amici, deliziosamente intimo e colorato dai pettegolezzi; in caso di frutti, una festa serale nell'immenso giardino della Casa Assoluta, illuminato da mille torce e animato da giocolieri, attori, ballerini e dai fuochi d'artificio.
Thecla mangiava frequentemente in piedi, camminando avanti e indietro per la cella, e reggeva il piatto con la mano sinistra mentre con l'altra gesticolava. — Così, Severian, zampillano nel cielo e riversano piogge di scintille verdi e violette, mentre quelle marroni rombano come il tuono!
Ma la sua povera mano non poteva mostrarmi in maniera soddisfacente l'ascesa dei razzi, perché il soffitto della cella non era molto più alto di lei.
— T i sto annoiando. Poco fa, quando mi hai portato le pesche, mi sembravi tanto felice, e adesso hai perso il sorriso. Io invece mi sento bene, qui, nel ricordare queste cose. Come le apprezzerò, quando le potrò rivivere...
Non ero annoiato, logicamente. Ma mi rattristavo nel vedere una donna tanto giovane e bella così rinchiusa...
Quando entrai nella stanza, Jonas stava scoprendo Terminus est. Mi versai una coppa di vino. — Come ti senti? — mi domandò.
— E tu? Per te è la prima volta, in fondo.
Lui scrollò le spalle. — Io devo solo portare l'attrezzatura. Tu l'hai già fatto altre volte? Me lo sto domandando, perché hai un aspetto così giovane.
— Sì, l'ho già fatto, ma mai a una donna.
— Pensi che sia innocente?
Mi stavo levando la camicia; quando ebbi le braccia libere, la usai per asciugarmi la faccia e scossi la testa. — Sono sicuro che non lo sia. Sono andato a parlare con lei, ieri sera... l'hanno incatenata in riva all'acqua. Te l'ho detto.
Jonas allungò la mano metallica per prendere la coppa del vino. — Mi hai detto che è molto bella e che ha i capelli neri come quelli di...
— Thecla. Ma quelli di Morwenna sono lisci, mentre quelli di Thecla erano ondulati.
— Come Thecla. Pare che tu l'abbia amata come io amo la tua amica Jolenta, anche se devo riconoscere che tu hai avuto molto più tempo a disposizione per innamorarti. E lei ti ha raccontato come il marito e i figli fossero morti per una malattia, probabilmente provocata dall'acqua. Il marito era più vecchio di lei, esatto?
— Aveva circa la tua età, penso — risposi.
— E una donna più anziana lo desiderava, e così tormentava la prigioniera.
— Solo a parole. — Nella corporazione, solo gli apprendisti indossano la camicia. Infilai i calzoni e misi il guanto di fuliggine, il colore più scuro del nero, sulle spalle nude. — Generalmente i clienti che vengono esposti in tal modo dalle autorità vengono lapidati. Quando arrivano a noi, sono pieni di lividi e spesso hanno perso anche qualche dente. Talvolta hanno delle ossa rotte e le donne di solito sono state violentate.
— Hai detto che è molto bella. Forse la gente pensa che sia innocente. Forse hanno avuto tutti pietà di lei.
Presi Terminus est, la sguainai e lasciai cadere il morbido fodero. — Gli innocenti hanno sempre dei nemici. La verità è che hanno paura di lei.
Uscimmo insieme.
Quando ero entrato nella locanda, ero stato costretto ad aprirmi un varco fra la folla dei bevitori. Allora, invece, si fecero da parte per lasciarmi passare. Indossavo la maschera e portavo Terminus est sulla spalla. Fuori, il chiasso della fiera si spense man mano che avanzavamo finché si ridusse a un brusio, come se stessimo attraversando un bosco.
Le esecuzioni sarebbero avvenute nel mezzo della fiera, e si era già radunata una folla immensa. Un caloyer paludato di rosso era in piedi accanto al palco e stringeva fra le mani un minuscolo formulario; era vecchio, come la maggior parte dei suoi colleghi. I due prigionieri aspettavano al suo fianco, circondati dagli uomini che avevano fatto uscire Barnoch dalla casa murata. L'alcalde indossava la veste gialla della sua carica e la catena d'oro.
Un'antica usanza vuole che il carnefice non salga sul palco usando la scala, anche se ho visto il Maestro Gurloes aiutarsi con la spada per fare il salto, nel cortile davanti alla Torre delle Campane. Quasi certamente ero l'unico fra tutti i presenti a conoscere tale tradizione, ma non la infransi e quando balzai sul palco con il manto che svolazzava intorno a me dalla folla si levò un urlo animalesco.
— O Increato — lesse il caloyer, — noi sappiamo che coloro che moriranno qui non sono, ai tuoi occhi, più malvagi di noi. Le loro mani grondano sangue. E anche le nostre.
Esaminai il ceppo. Quelli usati al di fuori della supervisione immediata della corporazione sono generalmente inadeguati. «Largo come uno sgabello, robusto e scavato.» Il ceppo che avevo davanti possedeva anche troppo bene i primi due requisiti, ma per volere di santa Caterina era leggermente convesso, e se pure il legno troppo duro avesse smussato il filo maschio della mia lama, fortunatamente potevo servirmi anche dell'altro, riservando a entrambi i condannati un filo fresco.
— ...per la tua volontà, in quest'ora, essi purificheranno il loro spirito acquistando forse prestigio al tuo cospetto. Noi che dovremo fronteggiarli allora, se anche oggi versiamo il loro sangue...
Mi misi a gambe larghe, appoggiandomi alla spada come se avessi il completo controllo della cerimonia, per quanto non sapessi quale dei due avesse estratto il nastro più corto.
— Tu, o eroe che distruggerai il verme nero che divora il sole; tu, dinnanzi al quale il cielo si aprì come un sipario; tu, il cui respiro annienterà l'immenso Erebus, Abaia e Scylla che si agita sotto le onde; tu, che sei parimenti vivo nel guscio del più piccolo seme nella più remota foresta, il seme rotolato nelle tenebre dove nessuno lo può vedere.
La donna, Morwenna, stava salendo la scala, preceduta dall'alcalde e seguita da un uomo che la pungolava con uno spiedo di ferro. Qualcuno, fra la folla, urlò un suggerimento osceno.
— ...abbi pietà di coloro che non ebbero pietà. Abbi pietà di noi, che adesso non ne avremo.
Il caloyer aveva terminato. L'alcalde prese la parola. — In modo odioso e innaturale...
La voce era alta, molto diversa dalla tonalità che usava generalmente per parlare e dalla retorica che l'aveva permeata nel discorso davanti alla casa di Barnoch. Dopo aver ascoltato distrattamente per alcuni istanti — stavo cercando Agia fra la gente — mi resi conto che era spaventato. Avrebbe dovuto assistere da vicino a tutto quello che sarebbe stato fatto ai due prigionieri. Sorrisi, sebbene la maschera non lo rivelò agli altri.
— ...di rispetto per il tuo sesso. Ma verrai marchiata su entrambe le guance, ti verranno spezzate le gambe e la testa ti verrà staccata dal corpo.
Mi augurai che avessero avuto abbastanza buon senso da capire che era necessario un braciere.
— Con il potere della somma giustizia conferito al mio indegno braccio dalla generosità dell'Autarca, i cui pensieri sono musica per i suoi sudditi, dichiaro... dichiaro...
Si era dimenticato le parole. Suggerii: — Che è venuto il tuo momento.
— Dichiaro che è venuto il tuo momento, Morwenna.
— Se hai una supplica da rivolgere al Conciliatore, esprimila adesso nel tuo cuore.
— Se hai una supplica da rivolgere al Conciliatore, esprimila.
— Se hai consigli per i figli delle donne, dopo questo non avrai più voce per darli.
L'alcalde stava ritrovando il controllo di sé e recitò tutto: — Se hai consigli per i figli delle donne, dopo questo non avrai più voce per darli.
Chiaramente, ma abbastanza piano, Morwenna disse: — So che la maggior parte di voi mi crede colpevole. Sono innocente. Non avrei mai compiuto quei gesti orribili che mi avete attribuito.
La folla si avvicinò per ascoltarla.
— In molti possono testimoniare che amavo Stachys e il figlio che lui mi aveva dato.
Una macchia di colore attirò il mio sguardo, neropurpurea nella forte luce del sole di primavera. Si trattava di un mazzo di rose trenodiche, come quelle che si portano ai funerali. La donna che lo teneva era Eusebia, che io avevo incontrato al fiume intenta a tormentare Morwenna. Mentre la fissavo, aspirò il profumo, estatica, quindi si servì degli steli ricoperti di spine per aprirsi un varco fra la folla e arrivare ai piedi del palco. — Queste sono per te, Morwenna. Muori prima che appassiscano.
Colpii il tavolato con la punta smussata della spada per imporre il silenzio. Morwenna disse: — Il sant'uomo che ha letto le preghiere per me e mi ha parlato prima di venire qui mi ha domandato di perdonarvi se avessi raggiunto la beatitudine prima di voi. Fino a questo momento non avevo avuto la possibilità di esaudire una preghiera, ma ora lo faccio. Vi perdono.
Eusebia stava per parlare di nuovo, ma la zittii con un'occhiata. L'uomo sogghignante e senza denti vicino a lei agitò la mano in cenno di saluto e, con un sussulto di sorpresa, riconobbi in lui Hethor.
— Sei pronto? — mi chiese Morwenna. — Io lo sono.
Jonas aveva appena posato sul palco un secchio di carboni ardenti dal quale spuntava quello che doveva essere il manico di un ferro da marchiatura. Ma la sedia mancava ancora. Rivolsi all'alcalde uno sguardo che voleva essere significativo.
Era come fissare un palo. Infine domandai: — Abbiamo una sedia, onorevolissimo?
— Ho mandato due uomini a prenderla. E ho ordinato anche una corda.
— Quando? — La folla iniziava ad agitarsi e a bisbigliare.
— Alcuni istanti fa.
La sera precedente mi aveva garantito che sarebbe stato tutto pronto, ma in quel frangente sarebbe stato inutile ricordarglielo. Non c'è nessuno, come ho avuto modo di appurare in seguito, che vada in confusione su un patibolo quanto un dignitario rurale. Egli si trova infatti diviso fra il desiderio ardente di essere al centro dell'attenzione, cosa che nel caso di un'esecuzione non è possibile, e la paura di non possedere l'esperienza e le capacità per comportarsi nel modo migliore. Persino il cliente più vigliacco, che sale le scale sapendo che gli verranno strappati gli occhi, diciannove volte su venti si comporta meglio. Persino un timido cenobita, non aduso alle voci degli uomini e diffidente sino al timore, merita una maggiore fiducia.
Qualcuno urlò: — Fatela finita!
Guardai Morwenna. Con il volto incavato e la pelle chiara, il sorriso pensoso e i grandi occhi scuri, poteva generare nella folla una indesiderata simpatia.
— Potremmo farla sedere sul ceppo — proposi all'alcalde. Non riuscii a trattenermi e aggiunsi: — Del resto, è più indicato per questo.
— Non abbiamo niente per legarla.
Mi ero già permesso un commento di troppo, perciò non dissi la mia opinione al riguardo di coloro che avevano bisogno di legare i prigionieri.
Così, posai Terminus est dietro il ceppo, feci sedere Morwenna e sollevai le braccia nell'atavico saluto, quindi presi il ferro con la mano destra e, tenendole i polsi con la sinistra, le impressi il marchio sulle guance, poi alzai il ferro ancora incandescente. A quell'urlo la folla si era ammutolita per un istante, dopodiché iniziò a ruggire.
L'alcalde si raddrizzò. Pareva un altro uomo. — Mostragliela — disse.
Io avevo sperato di evitarlo, ma dovetti aiutare Morwenna ad alzarsi. Tenendola per mano, quasi stessimo eseguendo una contraddanza, feci lentamente il giro del palco. Hethor era pazzo di felicità e, sebbene cercassi di non dare ascolto al suono della sua voce, sentivo che si vantava di conoscermi con la gente che gli stava intorno. Eusebia porse il mazzo a Morwenna urlando: — Ecco, presto ne avrai bisogno.
Dopo aver terminato il giro, guardai l'alcalde e, lasciato passare il tempo necessario perché lui si domandasse il motivo del ritardo, mi fece cenno di proseguire.
— Finirà presto? — mormorò Morwenna.
— È quasi finito. — La feci sedere nuovamente sul ceppo e ripresi la spada. — Chiudi gli occhi. Cerca di ricordare che tutti quelli che sono vissuti sono morti, anche il Conciliatore, che risorgerà come il Nuovo Sole.
Lei abbassò le palpebre pallide dalle lunghe ciglia e non vide la spada alzata. Il lampo dell'acciaio fece ammutolire nuovamente la folla e una volta ottenuto il silenzio completo colpii le cosce di Morwenna con il piatto della lama; il rumore dei femori che si spezzavano riecheggiò nitido come il crak-crak dei pugni di un pugile vittorioso. Morwenna rimase per un istante seduta sul ceppo, svenuta, ma senza cadere. In quel frangente indietreggiai di un passo e le recisi il collo con il colpo orizzontale che è molto più difficile da eseguire di quello dall'alto in basso.
Per dire la verità, solo quando vidi il sangue sgorgare e udii il tonfo della testa che cadeva sulla piattaforma capii di esserci riuscito. Nonostante non me ne fossi reso conto, ero nervoso quanto l'alcalde.
Quello è il momento in cui, sempre secondo le antiche usanze, l'abituale dignità della corporazione si infrange. Volevo ridere e far capriole. L'alcalde mi scuoteva una spalla e farfugliava come avrei voluto fare io stesso; non capivo le sue parole... certo qualche sciocchezza. Sollevai la spada, presi la testa per i capelli, alzai anche quella e feci il giro del palco. Non uno solo, ma tre o quattro.
S'era alzata una brezza che macchiava di scarlatto la mia maschera e il braccio e il petto nudi. La gente urlava le consuete battute: — Vuoi tagliare i capelli di mia moglie (o di mio marito)? Mezza misura di salsicce quando avrai terminato. Posso avere il suo cappello?
Ridevo di tutti e fingevo di gettare loro la testa. All'improvviso qualcuno mi tirò per un piede. Era Eusebia, e prima ancora che profferisse una sola parola compresi che era spinta da quell'ossessione di parlare che avevo notato spesso nei clienti della nostra torre. I suoi occhi brillavano e il suo volto era contorto per attirare la mia attenzione; pareva nello stesso tempo più vecchia e più giovane di prima. Non riuscivo a capire che cosa stesse urlando, perciò mi chinai ad ascoltare.
— Innocente! Era innocente!
Non era il momento di spiegarle che non avevo giudicato io Morwenna, così mi limitai ad annuire.
— Mi aveva portato via... Stachys! Adesso è morta. Capisci? Era innocente, ma sono tanto felice!
Annuii una seconda volta e continuai il giro del palco, mostrando la testa.
— L'ho uccisa io! — gridò Eusebia. — Non tu!
— Se vuoi! — le risposi.
— Innocente! La conoscevo... era tanto prudente. Avrebbe tenuto un po' di veleno per sé! Sarebbe morta prima che ci pensassi tu a ucciderla.
Hethor mi afferrò un braccio e mi additò: — Il mio padrone! Mio! Mio!
— Così è stato qualcun altro. O forse è stata veramente una malattia...
Io urlai: — Solo al Demiurgo spetta la giustizia! — La folla era ancora festante, nonostante si fosse un po' calmata.
— Ma lei mi aveva rubato il mio Stachys e adesso è morta! — Eusebia gridò ancora più forte. — Stupendo! È morta! — Nascose la faccia nel mazzo di fiori, quasi che volesse riempirsi i polmoni del loro soffocante profumo. Lasciai ricadere la testa di Morwenna nel cesto e asciugai la lama sul pezzo di flanella porpora che Jonas mi porgeva. Quando volsi nuovamente lo sguardo verso Eusebia, era senza vita, stesa a terra al centro di un gruppo di curiosi.
Al momento non vi badai, convinto che l'eccesso di gioia le fosse stato fatale. Ma quel pomeriggio l'alcalde fece esaminare il mazzo dal farmacista e fra i petali venne trovato un veleno forte e sottile, non identificabile. Probabilmente Morwenna l'aveva in mano e l'aveva gettato sui fiori quando le avevo fatto compiere il giro intorno al palco, dopo averla marchiata.
Permettete che mi fermi un istante e che vi parli da mente a mente, anche se forse ci separa l'abisso degli eoni. Nonostante quanto ho già scritto — dalla porta chiusa alla fiera di Saltus — comprenda gran parte della mia vita da adulto e quanto mi resta da raccontare riguardi appena pochi mesi, sento di non essere ancora giunto a metà della mia opera. Per non colmare una biblioteca grande come quella del vecchio Ultan, sorvolerò su molti particolari, vi avviso apertamente. Ho descritto l'esecuzione di Agilus, il fratello gemello di Agia, perché era importante per la mia storia, e quella di Morwenna per le insolite circostanze che la accompagnarono. Non ne descriverò altre, a meno che non svolgano un ruolo importante. Se godete nell'ascoltare le sofferenze e la morte degli altri, da me ricaverete ben poca soddisfazione. Basti dire che feci tutto quello che era stato stabilito al ladro di bestiame, terminando con la sua esecuzione; d'ora in poi, nel raccontare i miei viaggi, dovete tener presente che io esercitai il mestiere della mia corporazione quando era redditizio farlo, anche se non ne parlerò direttamente.
V
LA MINIERA
Quella sera io e Jonas cenammo da soli nella nostra camera. Mi ero reso conto che essere molto popolari e conosciuti da tutti è piacevole ma anche fastidioso, e dopo un po' ci si stanca di rispondere sempre alle stesse stupide domande e di rifiutare gli inviti a bere qualcosa insieme.
Avevo avuto una lieve divergenza con l'alcalde a proposito del mio compenso; io avevo chiesto, oltre al pagamento anticipato di un quarto della cifra eseguito nel momento dell'ingaggio, di ricevere il saldo per ogni cliente dopo la sua morte. L'alcalde invece sosteneva di aver capito che il saldo mi sarebbe stato consegnato solo dopo la morte di tutti e tre i condannati. Io non avrei mai accettato simili condizioni, e mi piacevano ancora meno dopo l'avvertimento dell'uomo verde, che non avevo riferito per devozione a Vodalus. Ma quando minacciai di non salire sul palco il giorno seguente, ricevetti il denaro e la questione si risolse in maniera pacifica.
Io e Jonas eravamo seduti davanti a un piatto fumante e a una bottiglia di vino, la porta era chiusa e avevamo ordinato al locandiere di negare la mia presenza. Mi sarei sentito completamente a mio agio se il vino nella mia coppa non mi avesse riportato alla memoria quello molto più gustoso che Jonas aveva scoperto nella nostra brocca la sera precedente, quando io avevo guardato di nascosto l'Artiglio.
Jonas mi fissò, mentre scrutavo il liquido rosso chiaro, ne versò una coppa per sé e disse: — Ricordati che non sei responsabile per le sentenze. Se non fossi venuto qui, sarebbero stati puniti ugualmente, e forse avrebbero sofferto ancora di più, nelle mani di una persona inesperta.
Gli domandai a che cosa si riferisse.
— Capisco che sei turbato... quello che è successo oggi...
— Mi è sembrato che andasse bene — dissi io.
— Sai cosa disse la piovra uscendo dal letto d'alghe della sirena: Non metto in discussione la tua abilità... anzi. Ma sembri avere bisogno di rallegrarti un po'.
— Si è sempre un po' depressi, dopo. Lo diceva anche il Maestro Palaemon, e ho scoperto che nel mio caso è vero. Lui diceva che si trattava di una funzione psicologica puramente meccanica, e allora mi pareva un ossimoro, ma adesso non sono più così sicuro che avesse ragione. Tu sei riuscito a vedere cos'è successo o ti hanno tenuto troppo occupato?
— Sono stato quasi sempre sulla scala, dietro di te.
— Allora hai potuto vedere bene. Avrai notato che è andato tutto come previsto dopo che abbiamo deciso di non aspettare la sedia. Ho praticato la mia arte in maniera da meritare gli applausi ed ero oggetto di grande ammirazione. Quando è tutto finito subentra un senso di stanchezza. Il Maestro Palaemon parlava di malinconia della folla e della corte, e sosteneva che alcuni le provano entrambe, altri non le subiscono affatto e altri ancora ne sperimentano una e non l'altra. Io sono afflitto dalla malinconia della folla; non penso che a Thrax mi sarà possibile capire se ho anche la malinconia della corte oppure no.
— E di che cosa si tratta? — Jonas, in quel momento, stava fissando la sua coppa.
— Un torturatore, diciamo un maestro della Cittadella, talvolta ha rapporti con esultanti del rango più elevato. Immagina un prigioniero importante che si suppone sia in possesso di informazioni preziose. Un funzionario di grado altissimo assisterà all'interrogatorio. Generalmente non ha una grande esperienza in fatto di operazioni tanto delicate, perciò rivolgerà continue domande al maestro e forse gli confiderà anche alcuni suoi timori riguardo il temperamento e la salute del prigioniero in questione. In tali circostanze un torturatore si sente al centro della situazione...
— E poi si sente depresso quando è tutto finito. Sì, immagino di capire...
— Hai mai visto di persona una situazione del genere quando le cose vanno male?
— No. Non mangi la carne?
— Non l'ho mai vista nemmeno io, ed è per questo che ero tanto teso. So di casi in cui il cliente è scappato fra la folla, di altri in cui è stato necessario colpire diverse volte con la spada per decapitare il condannato. Ancora, è successo che il torturatore abbia perso del tutto la propria sicurezza e sia stato incapace di portare avanti la cerimonia. Quando sono saltato sul palco, non avevo la certezza che a me non sarebbe accaduto niente del genere. Se mi fosse capitato, la mia carriera sarebbe finita, per sempre.
— Comunque, è un modo terribile di guadagnarsi il pane, come disse il roveto all'averla.
— Non so... — mi interruppi, perché avevo intravisto un movimento nella parte opposta della stanza. In un primo momento pensai che si potesse trattare di un ratto. Io detesto quegli animali. Ho visto troppi clienti morsicati nelle segrete della nostra torre.
— Cosa c'è?
— Qualcosa di bianco. — Feci il giro del tavolo per andare a guardare. — Un foglio di carta. Qualcuno lo ha fatto passare sotto la porta.
— Un'altra donna che vuole venire a letto con te — disse Jonas.
Ma io avevo già preso il foglio. Effettivamente era scritto dalla delicata mano di una donna, con un inchiostro grigiastro su pergamena. Lo avvicinai alla candela per leggerlo.
Carissimo Severian,
uno degli uomini che mi assistono mi ha riferito che ti trovi nel villaggio di Saltus, non molto lontano da me. Mi sembra troppo bello per essere vero, ma adesso devo scoprire se mi puoi perdonare.
Ti giuro che tutte le sofferenze che hai dovuto sopportare per amor mio non dipendono da me. Avrei voluto dirti tutto fin dall'inizio, ma gli altri non me l'hanno permesso. Dicevano che nessuno doveva esserne informato a parte loro stessi e che se non avessi ubbidito del tutto avrebbero rinunciato al piano e mi avrebbero lasciato morire. Ero sicura che eri pronto a sacrificare la vita per me, così ho osato sperare che, potendo scegliere, avresti accettato di soffrire per amor mio. Perdonami.
Ma adesso sono lontana e quasi libera... padrona di me a patto che ubbidisca alle istruzioni semplici e umane del buon Padre Inire. Ti spiegherò tutto, nella speranza che quando ne sarai al corrente mi perdonerai.
Sai del mio arresto. Ricorderai che anche il tuo Maestro Gurloes si preoccupava che godessi di tutte le comodità possibili e che visitava spesso la mia cella per parlare con me o mi faceva portare da lui per potermi interrogare con gli altri maestri. Tutto questo succedeva perché il buon Padre Inire si era raccomandato che mi fosse riservata ogni attenzione.
Alla fine, quando è diventato evidente che l'Autarca non mi avrebbe liberata, Padre Inire ha deciso di intervenire di persona. Non so quali minacce abbiano fatto al Maestro Gurloes, o quali compensi gli siano stati proposti. Comunque sono stati sufficienti e qualche giorno prima della mia morte — che tu hai creduto vera, caro Severian — mi è stato spiegato come avremmo fatto. Il semplice fatto che io venissi liberata non bastava. Dovevo essere lasciata libera in maniera tale che nessuno mi cercasse, così si decise di far credere a tutti che io fossi morta.
Adesso riuscirai anche tu a capire il modo in cui abbiamo superato questo groviglio di problemi. Il congegno a cui sono stata sottoposta provocava solamente effetti interni e il Maestro Gurloes lo aveva opportunamente adattato in maniera che io non soffrissi alcun danno. Quando tu credevi che io fossi in preda ai tormenti, ti ho domandato un'arma per porre fine alla mia triste vita e tutto è andato secondo i piani. Tu mi hai dato il coltello e io mi sono scalfita leggermente il braccio, badando a stare china davanti alla porta perché fuoriuscisse un po' di sangue, poi mi sono sporcata la gola e mi sono sdraiata sul letto in modo che tu mi potessi vedere dallo spioncino della cella.
Mi hai visto? Stavo immobile come una morta e tenevo gli occhi chiusi, ma mi è sembrato di avvertire la tua sofferenza nel guardarmi così ridotta. Ho quasi pianto e rammento che ho avuto paura di farmi cogliere con il volto bagnato di lacrime. Finalmente ho sentito i tuoi passi, così ho bendato il braccio e mi sono ripulita la faccia e il collo. Dopo un po' è arrivato il Maestro Gurloes e mi ha portata via. Perdonami.
Mi piacerebbe rivederti, e se Padre Inire riuscirà a ottenere il perdono, cosa che si è solennemente impegnato a fare, non ci sarà più motivo perché restiamo divisi. Vieni subito da me... sto aspettando il messaggero della Casa Assoluta e quando arriverà dovrò correre ai piedi dell'Autarca, il cui nome è un balsamo tre volte benedetto per le fronti riarse dei suoi schiavi.
Non dire niente di tutto questo a nessuno, dirigiti da Saltus verso nord-est fino a quando troverai un ruscello che corre verso il Gyoll. Seguilo controcorrente e arriverai all'ingresso di una miniera.
A questo punto è necessario che ti riveli un grande segreto, che non dovrai divulgare per nessun motivo. La miniera è un deposito di tesori dell'Autarca e contiene grandi quantità di monete, lingotti e gemme, messi da parte per il giorno in cui egli potrebbe venire scacciato dal Trono della Fenice. Tali tesori sono custoditi da certi servitori di Padre Inire, ma tu non hai motivo di averne paura. È stato ordinato loro di obbedirmi e io ho parlato di te spiegando che devono lasciarti passare. Una volta entrato nella miniera, segui il corso d'acqua fino al luogo in cui sgorga da una pietra. Io ti aspetterò là, e da quel posto ti sto scrivendo, nella speranza che riuscirai a perdonare la tua
Thecla
È impossibile per me descrivere la gioia che provai nel leggere e rileggere la lettera. Jonas, vedendo la mia espressione, balzò dalla sedia, probabilmente convinto che stessi per svenire; quindi si ritrasse come se mi credesse impazzito. Quando finalmente ripiegai la lettera e la riposi nella cintura, non mi domandò niente (era un vero amico) ma la sua espressione mi fece capire che era pronto ad aiutarmi.
— Ho bisogno del tuo animale — dissi. — Lo posso prendere?
— Certo, ma...
Io avevo già aperto la porta. — Tu non mi puoi accompagnare. Se andrà tutto bene farò in modo che ti venga restituito.
Mentre scendevo di corsa le scale e mi precipitavo nel cortile, la lettera mi parlava con la voce stessa di Thecla e quando entrai nella scuderia ero veramente impazzito. Ero intento a cercare il merichippo di Jonas quando mi vidi davanti un grande destriero con il dorso più alto dei miei occhi. Non riuscivo a immaginare chi avesse potuto portarlo in quel pacifico villaggio, e non persi tempo a riflettere. Senza un istante di esitazione gli balzai in groppa, sguainai Terminus est e con un unico colpo tranciai le redini che lo tenevano legato.
Non ho mai visto una cavalcatura migliore di quella. D'un balzo eravamo fuori dalla scuderia e avevamo raggiunto la strada del villaggio. Per il tempo di un respiro ebbi paura che potesse inciampare nelle corde di qualche tenda, ma ben presto notai che si muoveva con la sicurezza di un danzatore. La strada portava a est, verso il fiume.
Non appena fummo lontani dalle case, spinsi l'animale sulla sinistra. Scavalcò un muricciolo come un bambino scavalcherebbe un fuscello e mi ritrovai al galoppo su un prato nel quale i tori sollevavano le corna nella luce verdognola della luna.
Non sono mai stato un gran cavaliere. Nonostante l'alta sella penso che con un animale diverso sarei caduto a terra prima ancora di aver percorso mezza lega; ma quel destriero, nonostante la velocità, si muoveva con la scioltezza di un'ombra. E tali dovevamo apparire, lui con il suo pelo nero, io avvolto nel manto di fuliggine. Non aveva ancora rallentato quando arrivammo al ruscello descritto nella lettera. Lo fermai, sia tirando i finimenti sia a parole, e lui mi ascoltò come un fratello. Il corso d'acqua non era fiancheggiato da sentieri e dopo un breve tratto le sponde vennero nascoste dalle piante. Allora lo feci entrare nel ruscello, sebbene fosse riluttante, e risalimmo le acque spumeggianti come un uomo risale una scala, attraversando a nuoto i tratti più profondi.
Avanzammo nell'acqua per più di un turno di guardia, avvolti da una foresta molto simile a quella che io e Jonas avevamo attraversato dopo essere stati separati da Dorcas, dal dottor Talos e dagli altri alla Porta della Misericordia. Poi le sponde si fecero più alte e accidentate, le piante più piccole e contorte. Il letto del ruscello era costellato di massi, e i loro spigoli aguzzi, chiaramente derivanti dalle mani dell'uomo, mi fecero capire che ero arrivato nella zona delle miniere; sotto di noi c'erano i resti di qualche grande città. Il fondo era scosceso e il destriero talvolta incespicava sulle pietre sdrucciolevoli, obbligandomi a smontare e a condurlo per la briglia. Oltrepassammo in tal modo una serie di piccole depressioni sognanti, oscurate dalle altissime pareti che lasciavano comunque passare la verde luce della luna e risonanti solo dello scrosciare dell'acqua; per il resto il silenzio era assoluto.
Finalmente giungemmo in una piccola valle, più angusta delle precedenti, e in fondo a essa, a circa una catena di distanza, distinsi una buia apertura dove il chiaro di luna si riversava su una ripida altura. Lì nasceva il ruscello, fuoriuscendone come saliva dalle labbra di un titano pietrificato. Nei pressi della sorgente trovai un tratto di terreno abbastanza pianeggiante da potervi lasciare il destriero, e riuscii anche a legarlo annodando quello che rimaneva delle redini intorno a un albero nano.
Sicuramente una volta lì c'era stato un viadotto di legno che portava nella miniera, ma era franato. Nonostante fosse apparentemente impossibile riuscirci, trovai qualche appiglio per puntare i piedi in quella vetusta parete e la scalai, di fianco alla cascata.
Avevo appena insinuato le mani nell'apertura quando udii, o credetti di udire, un suono proveniente dalla valle retrostante. Mi fermai e voltai indietro la testa. Lo scroscio dell'acqua avrebbe certamente soffocato qualsiasi rumore meno intenso di uno squillo di tromba o di un'esplosione, e aveva soffocato anche quello; comunque avevo sentito qualcosa... la nota di una pietra che cade su altre pietre, forse, o il tonfo di qualcosa che piomba pesantemente in acqua.
La valle appariva tranquilla e silenziosa. Poi notai il mio destriero mutare posizione: la testa orgogliosa e gli orecchi piegati in avanti apparvero per un istante nella luce. Decisi che doveva essere stato lo sfregamento degli zoccoli ferrati d'acciaio contro la roccia a produrre il rumore di poco prima, segno di protesta della bestia per essere stata legata. Mi infilai nell'imboccatura della miniera e così facendo, lo scoprii più tardi, mi salvai la vita.
Qualsiasi uomo dotato di un briciolo di buon senso sapendo di dover entrare in un luogo come quello avrebbe portato una lanterna e una abbondante scorta di candele. Io ero stato talmente sconvolto dal pensiero che Thecla era ancora viva da non aver pensato ad altro. Così procedetti lentamente nell'oscurità e non avevo ancora fatto una dozzina di passi che la luce della luna alle mie spalle scomparve. I miei stivali sprofondavano nel ruscello e continuavo ad avanzare come quando avevo guidato il destriero. Tenevo Terminus est appesa al braccio sinistro e non rischiai mai di bagnare la punta del fodero nel corso d'acqua, perché la galleria era talmente bassa che dovevo camminare piegato in due. Avanzai a lungo, sempre nella paura di aver sbagliato strada e con il pensiero che Thecla mi stesse aspettando altrove, invano.
VI
LUCE AZZURRA
Mi abituai talmente allo scrosciare dell'acqua gelida che mi pareva di camminare nel silenzio. Ma non era vero e me ne resi conto quando, improvvisamente, l'angusta galleria sboccò in una camera più ampia e altrettanto buia e il rumore cambiò. Avanzai ancora di un passo, poi di un altro e alzai la testa. Il soffitto non era più tanto basso da costituire una minaccia per me. Sollevai le braccia. Niente. Strinsi l'impugnatura d'onice di Terminus est e l'agitai, ancora riparata nel fodero. Niente.
A quel punto feci una cosa che voi lettori riterrete senz'altro sciocca, ma vi prego di ricordare che secondo la lettera di Thecla le guardie della miniera erano state avvisate del mio arrivo e avevano ricevuto l'ordine di non farmi del male. Chiamai Thecla.
— Thecla... Thecla... Thecla... — risposero gli echi.
Ancora silenzio.
Rammentai che avrei dovuto seguire il corso d'acqua fino a trovare la pietra dalla quale sgorgava e non l'avevo ancora fatto. Forse lì, nelle viscere della collina, il ruscello passava attraverso diverse gallerie, come faceva all'esterno in molte piccole valli. Ricominciai a percorrerlo, muovendo i piedi con cautela per la paura di precipitare nel vuoto.
Avevo fatto appena cinque passi quando sentii qualcosa, in lontananza ma chiaramente, più chiaramente del mormorio dell'acqua che in quel punto scorreva tranquilla. Dopo altri cinque passi vidi la luce.
Non era il riflesso smeraldino delle foreste incantate dalla luna, e non era nemmeno la luce di una guardia... la fiamma scarlatta di una torcia, il chiarore dorato di una candela o il penetrante raggio bianco dei velivoli dell'Autarca sopra la Cittadella. Si trattava piuttosto di una nebbia luminosa che a volte sembrava incolore, a volte appariva di un verde giallastro impuro. Non era possibile capire quanto fosse distante e pareva priva di forma. Per un po' di tempo baluginò davanti a me e io, continuando a camminare dentro il ruscello, mi avviai nella sua direzione. Poi, a quella luce se ne aggiunse un'altra.
Faccio molta fatica a concentrarmi sugli avvenimenti accaduti negli istanti seguenti. Probabilmente ciascuno di noi tiene racchiusi nel subconscio dei momenti di orrore, come le nostre segrete dei livelli più bassi racchiudevano i clienti con la mente annientata o trasformata in una coscienza non più umana. Allo stesso modo, quei ricordi gridano e colpiscono le pareti con le catene, e raramente vengono riportati alla luce.
Quello che provai nelle viscere della collina è rimasto dentro di me come quei clienti restavano con noi: io mi sforzo di rinchiuderli nei recessi più remoti della memoria ma di tanto in tanto riaffiorano alla coscienza. (Non molto tempo fa, mentre la Samru era ancora vicina alla foce del Gyoll, guardai la notte dalla ringhiera di poppa; i remi che si immergevano nell'acqua mi apparvero come una chiazza di fuoco fosforescente e per un istante mi parve che quelli che si trovano nelle viscere della collina mi fossero venuti a cercare. Adesso posso controllarli, ma questo mi consola ben poco.)
Come ho già detto, alla luce che vedevo se ne aggiunse una seconda e poco dopo una terza e infine una quarta. Io continuai a camminare. Ben presto le luci divennero troppo numerose perché riuscissi a contarle; ma non sapendo di che cosa si trattasse, la loro vista mi confortava: certo che si trattasse delle torce di persone sconosciute, le guardie delle quali parlava la lettera. Dopo aver percorso un'altra dozzina di passi, mi accorsi che le macchioline di luce componevano una figura, un dardo o una punta di freccia, rivolto verso di me. Quindi udii, in sottofondo, un ruggito simile a quello che sentivo provenire dalla Torre dell'Orso quando veniva dato il pasto alle bestie. A quel punto avrei ancora fatto in tempo a mettermi al sicuro, se fossi fuggito.
Non lo feci. Il ruggito aumentò: non era una voce animale, ma non era nemmeno il grido della folla umana più inferocita. Le chiazze luminose cominciarono ad acquistare una loro forma, quella figura che in arte viene chiamata stella, con cinque punte ineguali.
Mi fermai, ma era troppo tardi.
Ormai la luce delle stelle era diventata tanto intensa da permettermi di scorgere le sagome intorno a me come ombre incombenti. Ovunque scorgevo dei massi con angoli tali che solo l'uomo poteva averli scolpiti... mi pareva di camminare nella città sepolta (non crollata sotto il peso del terreno) dove i minatori di Saltus estraevano i loro tesori. Fra quelle masse si stagliavano tozzi pilastri di un'irregolarità ordinata, quale ho notato a volte nelle cataste di legna da ardere, nelle quali ogni ceppo sporge e tuttavia contribuisce a formare il tutto. Luccicavano debolmente, riflettendo la luce malsana delle stelle in movimento e rendendola meno sinistra, o almeno più bella.
Per un istante pensai meravigliato ai pilastri, poi guardai nuovamente le forme a stella e le vidi bene per la prima volta. Vi è mai capitato di camminare nella notte verso quella che credevate essere la luce di una casetta e scoprire che si trattava invece del fuoco di una fortezza? Oppure di arrampicarvi, scivolare, riprendere la salita e accorgervi che il precipizio è cento volte più profondo di quanto credevate? Se vi è successo qualcosa del genere potrete vagamente capire cosa provai in quel momento. Le stelle non erano fonti di luce, ma sagome simili a uomini, piccole solo perché la caverna era molto più vasta di quanto avessi immaginato. E quegli uomini, che non parevano tali perché avevano le spalle più tozze ed erano storti e deformi, correvano verso di me. Il ruggito che avevo udito era il suono delle loro voci.
Mi volsi e quando capii che non potevo correre attraverso l'acqua salii sulla sponda dove sorgevano le strutture buie. Mi avevano quasi raggiunto e alcuni si erano spostati per impedirmi di arrivare alla strada che conduceva al mondo esterno.
Erano terribili, in un modo che non sono certo di riuscire a spiegare... come scimmioni, dalle figure pelose e storte, con le braccia lunghe, le gambe corte e i colli tozzi. I loro denti erano simili alle zanne degli smilodonti, curvi e seghettati, e si allungavano più di un dito al di sotto delle mandibole massicce. Ma non era nessuno di quei particolari a suscitare il mio orrore, e nemmeno la luce fosforescente che aderiva al loro pelo. Era qualcosa delle loro espressioni, forse gli enormi occhi dalle iridi pallide. Quegli occhi mi dicevano che erano esseri umani come me. Come i vecchi sono imprigionati in corpi in decadenza, come le donne sono rinchiuse in corpi deboli che le rendono facili prede dei desideri immondi, così quegli uomini erano racchiusi nelle loro sagome scimmiesche, e lo sapevano.
Quando mi circondarono, potei cogliere quella consapevolezza, e fu ancora peggio, perché gli occhi erano l'unica parte di loro a non brillare.
Presi fiato per urlare ancora una volta il nome di Thecla. Poi capii, richiusi le labbra e sguainai Terminus est.
Uno di loro, più grosso o semplicemente più ardito dei compagni, si fece avanti. Impugnava una mazza dal manico corto che un tempo era stata un femore. Mi minacciava restando appena al di fuori dalla mia portata, ruggendo e battendo contro la mano la testa metallica dell'arma.
Alle mie spalle qualcosa agitò l'acqua e io mi volsi appena in tempo per vedere un uomo-scimmia fosforescente che guadava il ruscello. Quando gli sferrai un fendente indietreggiò, ma la punta squadrata della mia lama lo colpì sotto l'ascella. La lama era forgiata con tanta perfezione che affondò fino allo sterno.
L'uomo-scimmia cadde e l'acqua trascinò via il suo corpo, ma prima di colpirlo ero riuscito a notare che entrare nell'acqua gli era costato fatica e che i suoi movimenti ne erano stati rallentati. Girandomi per tenere sott'occhio tutti i miei avversari, entrai a ritroso nel ruscello e iniziai a muovermi lentamente verso il punto di passaggio per il mondo esterno. Sentivo che, se fossi riuscito a raggiungere la stretta galleria, sarei stato al sicuro; ma ero certo che gli uomini-scimmia non me lo avrebbero permesso.
Mi circondarono in maniera ancora più compatta; dovevano essere alcune centinaia. La luce che emanavano divenne tanto forte che io riuscii a vedere bene le masse squadrate intraviste prima: erano veramente edifici, all'apparenza antichissimi, fatti di pietra grigia senza commessure e ricoperta dal guano dei pipistrelli.
I pilastri irregolari erano in realtà mucchi di lingotti nei quali ogni strato era stato posto di traverso sul precedente. Dal colore dedussi che si trattasse di argento. Ogni mucchio conteneva cento pezzi e nella città sepolta i mucchi erano centinaia.
Osservai tutto quello mentre retrocedevo di una mezza dozzina di passi. Al settimo passo gli uomini-scimmia mi balzarono addosso; erano almeno una ventina, e venivano da tutte le parti. Non mi lasciavano il tempo di sferrare colpi netti al collo. Mulinai la spada in cerchio e il suo canto colmò quel mondo sotterraneo echeggiando dalle pareti alla volta di pietra, più intenso dei muggiti e delle urla dei miei assalitori.
In situazioni come quella, il senso del tempo viene a mancare. Ricordo l'attacco fulmineo, i colpi che riuscii a sferrare freneticamente, ma a ripensarci tutto sembra successo in un lampo. Caddero, cinque, dieci, fino a quando intorno a me l'acqua venne annerita dal sangue e intasata dai moribondi e dai morti; ma gli assalitori continuavano a farsi avanti. Un colpo mi si abbatté sulla spalla come il pugno di un gigante. Terminus est mi scivolò via dalla mano e il peso dei corpi mi travolse, fino a che mi ritrovai a lottare sott'acqua, alla cieca. Le zanne del mio avversario mi lacerarono il braccio come aculei metallici, ma lui aveva paura di annegare, credo, così non continuò a lottare come avrebbe potuto fare. Gli infilai le dita nelle larghe narici e gli spezzai il collo, che mi era parso più robusto di quello di un uomo normale.
Se fossi riuscito a trattenere il respiro fino alla galleria sarei stato salvo. Sembrava che gli uomini-scimmia mi avessero perso di vista, così mi lasciai scivolare sott'acqua e seguii la corrente per un breve tratto. Ma i miei polmoni stavano per scoppiare; portai la faccia in superficie e gli uomini-scimmia mi balzarono addosso.
Ogni uomo a un certo punto della sua vita deve morire. Io ero convinto che il mio momento fosse quello, perciò tutta la vita che ho vissuto da allora in poi mi è sembrata un puro guadagno, un dono immeritato. Ero disarmato e il mio braccio destro era intorpidito e lacerato. Gli uomini-scimmia si erano fatti arditi e il loro ardimento mi concesse un altro momento di vita perché si affollarono talmente in tanti per uccidermi che finirono per ostacolarsi a vicenda. Sferrai un calcio a uno mentre un altro mi stringeva lo stivale. Notai un bagliore di luce; mosso da chissà quale istinto o ispirazione lo afferrai. Era l'Artiglio.
Come se attirasse a sé quella luce cadaverica e la tingesse con il colore della vita, colmò la caverna di una luce azzurro limpido. Nel tempo di un battito del cuore gli uomini-scimmia si fermarono, come a un colpo di gong, e io sollevai la gemma sopra la testa: non saprei dire in quale frenesia sperassi in quel frangente, ammettendo che sperassi in qualcosa.
Quanto successe fu comunque molto diverso. Gli uomini non scapparono urlando e non rinnovarono l'attacco. Invece arretrarono fino a quando i più vicini si trovarono a circa tre passi di distanza e si accovacciarono, premendo il volto contro il fondo della miniera. Si diffuse nuovamente il silenzio che avevo trovato al mio arrivo: non si udiva nulla all'infuori del mormorio del ruscello. Ma a quel punto potevo vedere tutto, dai mucchi di lingotti d'argento macchiato che mi stavano accanto fino all'estremità, dove gli uomini-scimmia erano scesi da un muro in rovina, entrando nella mia visuale come punti di fuoco pallido.
Iniziai a indietreggiare. Gli uomini-scimmia rialzarono la testa e i loro volti erano volti umani. Quando li vidi, capii gli eoni di lotte nel buio che avevano generato i loro occhi enormi, le zanne e gli orecchi penduli. Secondo i maghi noi un tempo eravamo scimmie e vivevamo felici nelle foreste inghiottite dai deserti in tempi tanto lontani da non avere nemmeno un nome. I vecchi, quando alla fine gli anni oscurano le loro menti, tornano bambini. Allora non è possibile che l'umanità, alla pari dei vecchi, ritorni a quello che era un tempo, se finalmente il vecchio sole si spegnerà e noi rimarremo immersi nell'oscurità a inciampare nelle ossa? Io vidi in quegli esseri il nostro futuro — o almeno uno dei nostri possibili futuri — e provai angoscia per coloro che avevano vinto le battaglie delle tenebre molto più che per quelli che avevano versato il loro sangue in quella interminabile notte.
Arretrai di un altro passo e nessuno degli uomini-scimmia si mosse. Allora mi sovvenni di Terminus est. Avrei provato un grande disprezzo nei confronti di me stesso se l'avessi abbandonata, anche se fosse stato per sottrarmi alla battaglia più impetuosa. Uscire incolume da quella miniera senza la spada era un pensiero insopportabile. Ripresi ad avanzare, cercando la lama lucente nella luce dell'Artiglio.
I volti di quegli strani uomini deformi parvero illuminarsi e notai nelle loro espressioni la speranza che io restassi con loro e che l'Artiglio, con la sua luce azzurra, li rischiarasse per sempre. Quanto mi pare orribile, mentre scrivo queste parole sulla carta! Ma non credo che sarebbe stato tanto orribile nella realtà. Per quanto il loro aspetto fosse bestiale, sui loro volti era dipinta l'adorazione; pensai — e lo penso ancora — che se sotto molti aspetti erano peggiori di noi, sotto altri dovevano essere migliori, benedetti com'erano da una torva innocenza.
Cercai su entrambe le sponde ma non vidi niente, nonostante la luce dell'Artiglio brillasse più forte e ancora più forte, fino a che ogni pietra che pendeva dalla volta di quello slargo gettò un'ombra acuminata e nera come la pece. Infine urlai: — La mia spada... Dov'è la mia spada? L'ha presa qualcuno di voi?
Non avrei mai rivolto loro la parola se non fossi stato tanto sconvolto dalla paura di averla persa, comunque parvero aver capito. Iniziarono a confabulare tra di loro e a farmi dei cenni, senza alzarsi, come per farmi capire che non avrebbero più combattuto e allungandomi le loro mazze e le lance d'osso appuntito.
Poi, tra il mormorio dell'acqua e il borbottio degli uomini, udii un nuovo suono e subito tutti tacquero. Solo un orso che sgranocchiasse le gambe del mondo potrebbe produrre quel rumore. Il letto del ruscello, nel quale io ero ancora immerso, tremò sotto di me e l'acqua, che fino a quel momento era stata tanto trasparente, venne offuscata da un carico di sedimenti simile a un nastro di fumo. Dal basso giunse un passo che avrebbe potuto essere quello di una torre nell'Ultimo Giorno, quando si dice che tutte le città di Urth si avvieranno a salutare l'alba del Nuovo Sole.
Un altro.
Improvvisamente gli uomini-scimmia si alzarono e, rimanendo curvi, fuggirono verso l'estremità più lontana della galleria, silenziosi e veloci come pipistrelli. Insieme a loro se ne andò anche la luce perché l'Artiglio, come in un certo senso avevo temuto, aveva brillato per loro e non per me.
Dalle profondità del suolo salì un terzo passo e l'ultimo barlume si spense; ma in quell'istante, nell'ultimo chiarore, vidi Terminus est nell'acqua più profonda. Mi piegai nell'oscurità e, riponendo l'Artiglio nello stivale, riafferrai la spada; mentre la recuperavo mi resi conto che l'indolenzimento al braccio mi aveva abbandonato e mi sentii forte come prima della battaglia.
Risuonò un quarto passo e io mi voltai e fuggii, a tentoni e allungando la spada davanti a me. Adesso credo di sapere quale creatura avessimo evocato dalle radici del continente, ma allora non ne avevo idea e non sapevo nemmeno se a evocarla fosse stato il ruggito degli uomini-scimmia o la luce dell'Artiglio o qualche altra cosa. Sapevo solo che c'era qualcosa, sotto di noi, qualcosa dinnanzi alla quale gli uomini-scimmia, nonostante il loro terribile aspetto e il loro numero, si erano dispersi come scintille al vento.
VII
GLI ASSASSINI
Quando ripenso alla seconda traversata della galleria, quella per tornare al mondo esterno, me la ricordo lunga un turno di guardia o anche di più. I miei nervi, penso, non sono mai stati completamente saldi, tormentati da una memoria impietosa come la mia. Allora erano tesi allo spasimo, al punto che percorrere tre passi mi sembrava richiedere il tempo di un'intera vita. Avevo paura, logicamente. Non sono mai stato definito un vigliacco dai tempi dell'infanzia e anzi, alcune persone hanno commentato il mio coraggio. Ho svolto i miei doveri di membro della corporazione senza tremare e mi sono battuto da solo e in guerra, ho scalato vette e in diverse occasioni ho rischiato di annegare. Ma sono convinto che fra coloro che vengono detti coraggiosi e quelli che vengono chiamati codardi l'unica differenza sia nel fatto che gli ultimi hanno paura prima di affrontare il pericolo, gli altri se ne impauriscono dopo.
Nessuno può sentirsi molto spaventato in un periodo di pericolo grande e incombente... la mente è troppo concentrata sulla cosa in sé e sulle azioni necessarie per affrontarla o per evitarla. Il vigliacco è tale, perciò, perché porta con sé la propria paura; le persone che noi giudichiamo codarde a volte ci stupiscono per il loro coraggio, se non hanno avuto nessun sentore del pericolo.
Il Maestro Gurloes, che da ragazzo ritenevo particolarmente ardito, era senza dubbio un vigliacco. Quando Drotte era capitano degli apprendisti, io e Roche ci davamo il cambio, turno per turno, al servizio del Maestro Gurloes e del Maestro Palaemon. Una sera, quando il Maestro Gurloes si ritirò nella sua cabina, mi fece restare per riempirgli la coppa e iniziò a confidarsi con me.
— Ragazzo, conosci la cliente Ia? È figlia di un armigero ed è molto bella.
In qualità di apprendista io avevo pochi contatti con i clienti. Scossi la testa.
— Bisogna abusarne.
Non avevo idea di che cosa intendesse dire, così risposi: — Sì, Maestro.
— È la vergogna maggiore che possa capitare a una donna. O a un uomo. Che si abusi di lei. E che lo faccia un torturatore. — Si toccò il petto e gettò indietro la testa per guardarmi. Il suo capo era incredibilmente piccolo per un uomo tanto massiccio, e se avesse portato una camicia o una giubba (che logicamente non portava mai), si sarebbe potuto pensare che fosse imbottita.
— Sì, Maestro.
— Non ti offri di farlo al mio posto? Un ragazzo come te, pieno di energia. Non dirmi che non hai ancora i peli.
Finalmente capii a cosa si riferisse e gli risposi che non credevo mi fosse permesso farlo, dal momento che ero ancora un apprendista; ma se mi fosse stato ordinato avrei certamente obbedito.
— Ne sono sicuro. Lei non è male, sai. Ma è alta, e a me le donne alte non piacciono. Nella sua famiglia c'era il bastardo di un esultante, un paio di generazioni fa, stanne certo. Il sangue si rivela, come si dice, anche se solo noi sappiamo cosa significhi esattamente. Lo vuoi fare tu?
Allungò la coppa e io versai il vino. — Se lo desideri, Maestro. — A dire il vero, quella prospettiva mi eccitava. Non ero mai stato con una donna.
— Non puoi. Tocca a me. E se venissi interrogato? E poi, lo devo attestare... firmare i documenti. Sono maestro nella corporazione da vent'anni e non ho mai falsificato i documenti. Sono certo che penserai che non sarei capace di farlo.
Non ci avevo mai pensato, come non avevo mai pensato il contrario a proposito del Maestro Palaemon, che con i capelli bianchi, le spalle curve e la lente pareva essere sempre stato decrepito.
— Allora, stai a vedere — disse il Maestro Gurloes, alzandosi pesantemente dalla sedia.
Era una di quelle persone che riescono a parlare chiaramente e a camminare diritti anche quando sono molto ubriachi, e si avviò a passo sicuro verso un armadietto, anche se per un istante credetti che avrebbe lasciato cadere il barattolo di porcellana azzurra che tolse dal ripiano.
— Questa è una droga rara e potente. — Levò il coperchio e mi fece vedere una polvere marrone scuro. — Non fallisce mai. Un giorno la userai anche tu, perciò devi conoscerla. È sufficiente che tu ne prenda quanta ne potresti tenere sotto l'unghia sulla punta di un coltello. Mi segui? Se ne prendi tanta, non potrai apparire in pubblico per alcuni giorni.
— Lo terrò a mente, Maestro — dissi.
— Logicamente è un veleno. Sono tutti veleni, e questo è il migliore. Una dose maggiore potrebbe ucciderti. E non devi più farne uso fino a quando non cambia la luna, capito?
— Forse faresti meglio a farti pesare la dose da fratello Corbinian, Maestro. — Corbinian era il nostro farmacista; avevo il terrore che il Maestro Gurloes ne inghiottisse un'intera cucchiaiata sotto i miei occhi.
— Io? Non ne ho bisogno. — Sprezzante, richiuse il barattolo e lo sbatté sul ripiano, dentro l'armadietto.
— Bene, Maestro.
— E poi... — Mi strizzò l'occhio. — Avrò questo. — Tolse dalla borsa un fallo di ferro. Era lungo una spanna e mezza e sul lato opposto alla punta spuntava una cinghietta di cuoio.
Potrà sembrare assurdo a voi lettori, ma per un istante non riuscii a capire quale funzione potesse avere, nonostante il realismo piuttosto marcato della forma. Pensai che il vino avesse stordito il Maestro Gurloes, rendendolo simile a un bambino che non riesce a notare la differenza esistente fra la sua cavalcatura di legno e un animale vero. Avrei voluto scoppiare a ridere.
— Abusare è la loro parola. E come vedi ci hanno lasciato una via d'uscita. — Colpì il palmo della mano con il fallo di ferro... lo stesso gesto, adesso che ci penso, che aveva fatto l'uomo-scimmia con la mazza per minacciarmi. Allora capii e venni sopraffatto dalla ripugnanza.
Trovandomi ora in quella situazione non proverei più nemmeno quel sentimento. Non avevo nessuna simpatia personale per la cliente, e non pensavo affatto a lei; si trattava solo di avversione per il Maestro Gurloes, che nonostante la sua mole massiccia e la sua grande forza doveva ricorrere alla polvere marrone e, peggio ancora, al fallo di ferro che mi aveva mostrato e che forse era stato segato da una statua. Eppure capitò un'occasione in cui la cosa doveva essere fatta immediatamente, per evitare che la cliente morisse prima, e senza polvere e senza fallo di ferro riuscì tranquillamente a fare il suo dovere.
Dunque, il Maestro Gurloes era un vigliacco. Eppure forse la sua vigliaccheria era migliore del coraggio che io avrei avuto al suo posto, perché non sempre il coraggio è una virtù. Io ero stato coraggioso, secondo il comune punto di vista, quando avevo combattuto contro gli uomini-scimmia, ma il mio coraggio non era altro che un miscuglio di avventatezza, sorpresa e disperazione; nella galleria, quando non avevo più motivo di aver paura, ero terrorizzato e rischiavo di fracassarmi la testa contro la volta eccessivamente bassa. Ma non mi fermai e non rallentai nemmeno prima di scorgere davanti a me il varco, illuminato dal benedetto chiarore della luna. Solo allora mi fermai e, ritenendomi al sicuro, asciugai come potei la spada con l'orlo lacero del mantello e la riposi nel fodero.
Quindi, appesi Terminus est alla spalla e mi calai, cercando con le punte degli stivali intrisi d'acqua gli appigli che mi avevano permesso la salita. Ero giunto al terzo quando due dardi colpirono la roccia vicino alla mia testa. Uno si incuneò sicuramente con la punta in una fenditura e restò piantato, sfolgorante di fuoco bianco. Ricordo il mio sbalordimento e come mi augurai, negli istanti che trascorsero prima che il secondo colpisse ancora più vicino e quasi mi accecasse, che non si trattasse di quelle balestre che portano un nuovo proiettile alla corda quando vengono armate e che sono quindi velocissime a tirare di nuovo.
Quando il terzo dardo esplose contro la pietra, compresi che si trattava proprio di quelle e mi abbandonai a terra prima che i tiratori, avendo fallito, tirassero ancora.
Come avrei dovuto ricordare, il ruscello, una volta uscito dall'imboccatura della miniera, cadeva in una pozza profonda. Mi bagnai tutto un'altra volta, ma non essendomi ancora asciugato, non fu poi un gran danno, e anzi, quel bagno servì a spegnere le scaglie di fuoco che avevano aderito al mio volto e alle mie braccia.
Non riuscii assolutamente a restare immerso. L'acqua mi afferrò come se fossi un fuscello e mi gettò a galla a suo capriccio. Fortunatamente, mi fece riaffiorare a una certa distanza dalla parete rocciosa e io riuscii a guardare i miei assalitori da dietro, mentre mi arrampicavo sulla sponda. Tutti, compresa la donna che stava fra loro, stavano fissando il punto in cui precipitava la cascata.
Mentre sguainavo Terminus est per l'ultima volta nel corso di quella notte, chiamai: — Qui, Agia!
Avevo già capito che si trattava di lei, ma quando si volse, molto più in fretta degli uomini che le stavano intorno, vidi la sua faccia incorniciata dal chiaro di luna. Per quanto bello, per me quel viso era terribile, perché attestava che Thecla era veramente morta.
L'uomo più vicino a me fu tanto stolto da avvicinare la balestra alla spalla prima di colpire. Io lo prevenni e gli tranciai le gambe, mentre il dardo scagliato dall'altro passava sopra la mia testa come una meteora.
Quando mi rialzai, il secondo uomo aveva lasciato cadere la balestra e stava sguainando lo spadino. Agia fu più pronta e sferrò un fendente contro il mio collo con un athame prima che lui fosse riuscito a liberare l'arma dal fodero. Evitai il primo colpo e parai il successivo, anche se la lama di Terminus est non era adatta per la scherma. Il mio attacco la fece indietreggiare di un balzo.
— Aggiralo — gridò Agia al suo secondo uomo. — Io lo posso fronteggiare.
L'uomo non disse niente. Spalancò la bocca e la punta dello spadino saettò. Non avevo ancora capito che stava guardando altrove quando qualcosa di luminoso mi passò rapidamente accanto. Udii il terribile rumore di un cranio spaccato. Agia si volse con l'eleganza di un felino: stava per trapassare l'uomo-scimmia, ma io riuscii a levarle di mano la lama avvelenata e a farla cadere nell'acqua. Cercò di scappare: l'afferrai per i capelli e la gettai a terra.
L'uomo-scimmia stava borbottando sopra il corpo dell'avversario che aveva ucciso... non ho mai capito se fosse sua intenzione depredarlo o se fosse semplicemente incuriosito dal suo aspetto. Appoggiai il piede sul collo di Agia e l'uomo-scimmia si raddrizzò voltandosi verso di me; quindi si accovacciò a terra nella posizione che avevo già visto nella miniera e levò in alto le braccia. Gli mancava una mano: riconobbi il taglio netto di Terminus est. Farfugliò qualcosa che non riuscii a comprendere.
Cercai di rispondergli: — Sì, sono stato io. Scusami. Adesso siamo in pace.
L'uomo-scimmia mantenne l'espressione supplichevole e parlò di nuovo. Dal moncherino colava ancora il sangue, nonostante la sua specie possieda un meccanismo che permette alle vene di chiudersi, simile a quello dei tilacodonti; senza l'intervento di un chirurgo, un uomo normale sarebbe morto dissanguato con una ferita simile.
— L'ho tagliata io — dissi. — Ma è successo quando ancora lottavamo, prima che voi tutti vedeste l'Artiglio del Conciliatore. — Poi mi venne in mente che poteva avermi seguito fino lì per vedere meglio la gemma, sfidando anche la paura per ciò che avevamo risvegliato nelle viscere della collina. Infilai la mano nello stivale e presi l'Artiglio, e nello stesso istante in cui lo feci capii quanto ero stato stupido a mettere lo stivale e il suo prezioso carico tanto vicino ad Agia, perché lei spalancò gli occhi con un'espressione avida mentre l'uomo-scimmia si prosternava ancora di più e allungava il moncherino.
Per un po' rimanemmo tutti e tre immobili, e in quella strana luce formavamo certamente un quadretto bizzarro. Una voce stupefatta — quella di Jonas — mi riscosse: — Severian! — chiamò dalle alture sopra di me. Come lo squillo di una tromba in uno spettacolo delle ombre mette fine a ogni finzione, così quel grido fece terminare l'immobilità. Io abbassai l'Artiglio e lo nascosi nel palmo della mano. L'uomo-scimmia corse a precipizio verso la parete rocciosa e Agia iniziò a dimenarsi e a imprecare sotto il mio piede.
La misi a tacere con una piattonata della spada, ma la tenni bloccata fino a quando Jonas mi raggiunse e fummo in due a ostacolarle la fuga.
— Ho pensato che avessi bisogno di aiuto — disse Jonas. — Mi rendo conto di aver sbagliato. — Stava fissando i cadaveri dei due uomini che avevano accompagnato Agia.
— Questa non è stata la vera battaglia — dissi.
Agia si era messa a sedere e si massaggiava il collo e le spalle. — Erano in quattro. E ti avremmo ucciso se dalla rupe non fossero piombati su di noi quegli esseri, quegli uomini-tigre luminescenti, e due si sono spaventati e sono scappati.
Jonas si grattò la testa con la mano d'acciaio, un suono simile a quello che si genera strigliando un destriero. — Allora quello che ho creduto di vedere era vero. Iniziavo a domandarmi se fosse realmente successo.
Gli chiesi che cosa pensava di avere visto.
— Un essere luminoso con il manto di pelliccia chinato davanti a te. E tu stavi reggendo una coppa di acquavite incendiata, mi sembra. O forse era incenso? E questo cos'è? — Si piegò e raccolse un oggetto sulla riva, nel punto in cui poco prima era accovacciato l'uomo-scimmia.
— Una mazza.
— La vedo. — All'estremità del manico sporgeva un cappio di minugia. Jonas se lo passò al polso. — Chi sono quelli che hanno cercato di ucciderti?
— Lo avremmo ucciso — disse Agia, — se non fosse stato per quel mantello. Lo abbiamo visto scendere nella galleria, ma il mantello lo ha nascosto mentre si calava e i miei uomini non sono riusciti a vedere il bersaglio, solo le braccia.
Raccontai a Jonas in maniera più succinta possibile i miei rapporti con Agia e il suo gemello e descrissi la morte di Agilus.
— Allora lei è venuta per raggiungerlo. — Jonas guardò Agia, quindi la lama insanguinata di Terminus est e scosse leggermente le spalle. — Ho lasciato lassù il mio merichippo e forse è il momento di andare a prenderlo. Così potrò dire di non avere visto niente. È lei la donna che ti ha spedito la lettera?
— Avrei dovuto immaginarlo. Le avevo parlato di Thecla. Tu non sai niente di Thecla, ma lei sì e per questo motivo ha scritto la lettera. Gliene ho parlato mentre percorrevamo i Giardini Botanici di Nessus. C'erano degli errori nella lettera, cose che Thecla non avrebbe mai detto, ma al momento non vi ho fatto caso.
Mi scostai e riposi nuovamente l'Artiglio nello stivale, sistemandolo con cura. — Forse è meglio che tu vada a raggiungere il merichippo, come hai detto. Pare che il mio destriero sia scappato e credo che dovremo cavalcare il tuo a turno.
Jonas annuì e iniziò a risalire.
— Mi stavi aspettando, vero? — domandai ad Agia. — Avevo sentito qualcosa e il destriero aveva drizzato gli orecchi. Eri tu. Perché non mi hai ucciso allora?
— Eravamo lassù. — Agia mostrò le alture. — E io volevo che i miei uomini ti colpissero mentre risalivi il ruscello. Ma erano sciocchi e ostinati come sono sempre gli uomini e hanno detto che non volevano sprecare i dardi... che gli esseri che vivono là dentro ti avrebbero ucciso. Ho fatto cadere una pietra, la più grossa che sono riuscita a smuovere, ma ormai era troppo tardi.
— Erano stati loro a parlarti della miniera?
Agia scrollò le spalle e la luce della luna trasformò le sue spalle nude in qualcosa di più prezioso e di più bello della carne. — Adesso mi ucciderai, perciò cosa importa? Tutti gli abitanti della zona conoscono questo posto. Si dice che quegli esseri escano di notte, durante i temporali, per rubare gli animali dalle stalle e che qualche volta facciano anche irruzione nelle case per prelevare i bambini. Secondo una leggenda essi custodiscono un tesoro, là sotto, come ti ho scritto nella lettera. Ero convinta che se non per la tua Thecla, almeno per il tesoro saresti venuto. Posso girarti le spalle, Severian? Se per te è lo stesso, non voglio veder arrivare il colpo.
A quelle parole mi parve che un peso si levasse dal mio animo. Non ero stato certo di riuscire a colpirla, se avessi dovuto guardarla in volto.
Sollevai il mio fallo di ferro e in quell'istante mi sovvenni che c'era ancora una cosa che volevo chiedere ad Agia, ma non riuscii a ricordarmela.
— Colpisci — disse lei. — Sono pronta.
Mi sistemai saldamente, e le mie dita trovarono la testa di donna a un'estremità della guardia, la testa che indicava il filo femminile.
— Colpisci! — ripeté, dopo un po'.
Ma ormai io ero risalito dalla valle.
VIII
I CULTELLARII
Ritornammo alla locanda in silenzio e tanto lentamente che il cielo si oscurò a oriente prima ancora che avessimo raggiunto il villaggio. Jonas stava levando la sella al merichippo quando dissi: Non l'ho uccisa.
Lui annuì senza guardarmi. — Lo so.
— Mi hai spiato? Avevi detto che non l'avresti fatto.
— Ho sentito la sua voce poco prima che tu mi raggiungessi. Ci proverà ancora?
Aspettai, riflettendo, mentre Jonas portava la piccola sella nella stanza dei finimenti. Quando uscì, risposi: — Sì, sono certo che ci proverà ancora. Non le ho fatto promettere nulla, se è a questo che ti riferisci. Comunque, non manterrebbe nessuna promessa.
— Allora io l'avrei uccisa.
— Sì — dissi. — Sarebbe stato giusto farlo.
Uscimmo insieme dalla scuderia. Il cortile della locanda era abbastanza illuminato da permetterci di vedere il pozzo e la grande porta.
— Non penso che sarebbe stato giusto... sto solo dicendo che io al tuo posto l'avrei fatto. Mi sarei visto pugnalato nel sonno, morente su un letto sudicio, e l'avrei colpita. Non sarebbe stato giusto. — Jonas sollevò la mazza che l'uomo-scimmia aveva abbandonato e la vibrò in una brutale e sgraziata parodia di un colpo di spada. L'arma luccicò ed entrambi soffocammo un'esclamazione.
Era oro battuto.
Nessuno di noi due aveva voglia di prendere parte ai divertimenti che la fiera aveva ancora da offrire a coloro che avevano gozzovigliato per tutta la notte. Ci ritirammo nella nostra camera e ci preparammo per dormire. Quando Jonas si offrì di dividere l'oro con me rifiutai. Fino a quel momento lui aveva dovuto vivere della mia generosità, servendosi del denaro che avevo ricevuto in abbondanza e dell'anticipo del mio onorario. Ero contento che non dovesse più sentirsi in debito con me. Inoltre, il pensiero che lui si fidasse completamente di me a proposito dell'oro mi faceva vergognare, perché io gli avevo nascosto, e gli stavo ancora nascondendo, con molta attenzione l'esistenza dell'Artiglio. Mi sentii in dovere di dirgli tutto, ma non lo feci. Invece, mi levai gli stivali bagnati in modo che l'Artiglio vi cadesse all'interno.
Mi svegliai verso mezzogiorno e, dopo aver controllato che la pietra fosse ancora al suo posto, chiamai Jonas, come lui mi aveva chiesto di fare. — Alla fiera forse troverò qualche gioielliere disposto a pagarmi bene per quella mazza — disse. — Almeno potrò contrattare. Vuoi venire con me?
— Ci converrà mangiare qualcosa e quando avremo finito mi dovrò presentare sul palco.
— Torni al lavoro?
— Sì. — Presi in mano il mantello. Era strappato e gli stivali erano ancora umidi e opachi.
— Una delle cameriere forse saprà ricucirlo. Non sarà più come se fosse nuovo, ma sarà sempre meglio di adesso. — Jonas aprì la porta. Se hai fame, andiamo. Perché hai quell'aria pensierosa?
Nel ristorante della locanda, davanti a un piatto abbondante e mentre la moglie del padrone mi rammendava il mantello in un altro locale, gli raccontai quello che era successo nella miniera e conclusi parlando dei passi che avevo sentito venire dal profondo della terra.
— Sei un tipo strano — disse semplicemente Jonas.
— E tu sei ancora più strano di me. Non vuoi che si sappia in giro, ma sei una specie di straniero.
Sorrise. — Un cacogeno?
— Uno straniero.
Jonas scrollò la testa, quindi annuì. — Hai ragione, credo di esserlo. Ma tu... possiedi questo talismano che ti permette di comandare agli incubi e hai scoperto un tesoro in lingotti d'argento. E ne parli come un altro potrebbe parlare del tempo.
Presi un pezzetto di pane. — È strano, lo riconosco. Ma la stranezza è nell'Artiglio, non in me. In quanto al fatto che te ne ho parlato, perché non avrei dovuto? Se rubassi il tuo oro, lo potrei vendere e spendere i soldi ricavati, ma non penso che sarebbe altrettanto facile per chi rubasse l'Artiglio. Non so perché ne sono convinto, ma lo sento. E naturalmente è stata Agia a rubarlo. In quanto all'argento...
— E poi te lo ha messo in tasca?
— Nella borsa che tengo appesa alla cintura. Era convinta che suo fratello mi avrebbe ucciso, ricordatelo. In seguito avrebbero richiesto il mio cadavere... questo lo avevano già stabilito per impossessarsi di Terminus est e dei miei vestiti. In tal modo avrebbero avuto la spada, gli abiti e anche la gemma; e nel frattempo, se fosse stata ritrovata, la colpa sarebbe ricaduta su di me. Ricordo...
— Che cosa?
— Le pellegrine. Ci fermarono mentre stavamo cercando di uscire. Jonas, tu credi che certe persone possano leggere nel pensiero altrui?
— Certo.
— Non tutti la pensano come te. Il Maestro Gurloes era favorevole all'idea, mentre il Maestro Palaemon non ne voleva sentir parlare. Comunque, sono convinto che la somma sacerdotessa delle pellegrine fosse in grado di farlo, almeno fino a un certo punto. Aveva capito che Agia aveva rubato qualcosa e io no. Fece spogliare Agia perché venisse perquisita e non me. In un secondo tempo distrussero la loro cattedrale e io penso che lo abbiano fatto in seguito alla perdita dell'Artiglio... In fondo era la Cattedrale dell'Artiglio.
Jonas annuì, pensieroso.
— Ma non è di questo che intendevo parlarti. Volevo sapere la tua opinione riguardo ai passi. Tutti sanno la storia di Erebus e di Abaia e degli altri esseri del mare che un giorno saliranno sulla terra ferma. Sono convinto che tu ne sappia più di molti altri.
Il volto di Jonas, generalmente amichevole e aperto, divenne chiuso e guardingo. — E per quale motivo lo credi?
— Perché sei stato per mare e per via della storia dei fagioli che raccontasti alla porta. Prima, devi aver notato il mio libro rilegato in marrone. Parla di tutti i segreti del mondo, o per lo meno di tutto quello che i maghi hanno detto al riguardo. Io non l'ho letto tutto, non ne ho letto nemmeno la metà, nonostante io e Thecla lo consultassimo spesso e poi ne discutessimo tra una lettura e l'altra. Ma ho notato che le spiegazioni in esso contenute sono molto banali, quasi infantili.
— Come la mia storia.
Annuii. — La tua storia sembra addirittura tratta dal libro. Quando lo portai a Thecla, ero convinto che fosse destinato ai bambini o a quegli adulti che apprezzano le cose infantili. Ma quando commentavamo alcuni pensieri che sono riportati in esso, mi rendevo conto che quello era l'unico modo per esprimerli. Un autore che intendesse spiegare un nuovo metodo per ottenere il vino o il modo migliore di fare l'amore, potrebbe usare un linguaggio tecnico e accurato. Ma l'autore di quel libro non avrebbe potuto dire altro che: In principio era solo l'esamerone, oppure: Non si tratta di vedere l'icona stare ferma, ma di vedere lo stare fermi. La cosa che ho sentito muoversi sottoterra... era una di quelle?
— Non l'ho vista. — Jonas si alzò in piedi. — Adesso andrò a vendere la mazza, ma prima di uscire ti dirò quello che prima o poi tutte le mogli dicono al proprio marito: Prima di fare altre domande, pensa bene se vuoi davvero sapere le risposte.
— Un'ultima cosa — dissi. — E poi ti prometto che non ti chiederò altro. Quando abbiamo attraversato le Mura, tu hai detto che le sagome che si vedevano al loro interno erano soldati e hai accennato al fatto che erano stati messi lì per opporre resistenza ad Abaia e agli altri. Gli uomini-scimmia sono soldati di quel genere? E se lo sono, che cosa possono fare i combattenti di dimensioni umane quando si trovano davanti avversari enormi come montagne? E per quale motivo i vecchi autarchi non si servirono di soldati umani?
Jonas aveva avvolto la mazza in uno straccio e se la passava da una mano all'altra. — Mi hai fatto tre domande e l'unica alla quale io sono in grado di rispondere con sicurezza è la seconda. Cercherò di indovinare le altre due risposte, ma ti prego di tenere a mente la promessa: è l'ultima volta che affronteremo questi argomenti.
«Innanzitutto l'ultima domanda. I vecchi autarchi, che non erano autarchi e non venivano chiamati in tal modo, si servivano di soldati umani. Ma i guerrieri che avevano creato umanizzando gli animali o forse brutalizzando in segreto gli uomini erano più fedeli. Dovevano esserlo, dal momento che la popolazione, piena d'odio contro i sovrani, odiava ancora di più i loro servitori. In tal modo era possibile imporre ai servitori delle situazioni che i soldati umani non avrebbero mai tollerato. Probabilmente è per questo motivo che vennero usati nelle Mura. O forse esiste una spiegazione completamente diversa.
Jonas si fermò e si avvicinò alla finestra. Non guardava la strada, ma le nuvole. — Non so se i tuoi uomini-scimmia siano degli ibridi di tal genere. Quello che ho visto io mi è parso completamente umano, a parte il pelo, perciò sono propenso, come te, a ritenerli esseri umani che abbiano subito dei mutamenti essenziali in seguito alla vita nelle miniere e ai contatti con le reliquie della città che vi è sepolta. Urth ormai è vecchissima, e senz'altro nei tempi passati c'erano molti tesori sepolti. L'oro e l'argento non si deteriorano, ma i loro guardiani possono aver subito delle metamorfosi molto più strane di quelle che trasformano l'uva in vino e la sabbia in perle.
— Ma anche noi che viviamo nel mondo esterno sopportiamo ogni notte l'oscurità e veniamo a contatto con i tesori che sono stati estratti dalle miniere. Perché allora non siamo cambiati anche noi?
Jonas non rispose e io mi sovvenni la promessa di non fargli altre domande. Tuttavia, quando si volse, qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che ero uno stupido e che eravamo cambiati anche noi. Si girò nuovamente dall'altra parte e riprese a osservare il cielo.
— E va bene — ammisi, — non sei tenuto a rispondere alla mia domanda. Ma quella a cui avevi promesso di dare risposta? Come possono i soldati umani lottare contro gli esseri venuti dal mare?
— Avevi ragione quando hai detto che Erebus e Abaia sono grandi come montagne, e riconosco che il fatto che tu lo sapessi mi ha meravigliato. La maggior parte della gente non ha l'immaginazione necessaria per concepire qualcosa di tanto grande e li crede grandi al massimo quanto una casa o una nave. In realtà le loro vere proporzioni sono tanto immense che, finché restano su questo mondo, non possono abbandonare l'acqua... il loro stesso peso li schiaccerebbe. Non devi pensare a un assalto alle Mura con i pugni o con il lancio di macigni, essi si procurano servitori con i loro pensieri e li lanciano contro ogni potere che li ostacola.
A quel punto Jonas aprì la porta della locanda e uscì nella confusione della strada. Io restai immobile, con un gomito appoggiato al tavolo e rammentai il sogno che avevo fatto quando avevo diviso il letto con Baldanders. La terra non aveva posto per noi, avevano detto quelle donne terrificanti.
Sono arrivato a un punto della mia narrazione in cui non posso fare a meno di accennare a una cosa che finora ho evitato di trattare. Voi lettori avrete notato che non ho avuto problemi a raccontare dettagliatamente avvenimenti accaduti anni fa, riferendo esattamente le parole di coloro con i quali io parlavo, ma avrete certamente pensato che si trattasse di una convenzione adottata per rendere più scorrevole la storia. La realtà è che io sono uno dei perseguitati da quella che viene definita memoria perfetta. Non è possibile, come alcuni stupidamente sostengono, ricordare tutto. Non posso ricordare l'ordine dei libri sugli scaffali nella biblioteca del Maestro Ultan, per esempio. Ma riesco a tenere a mente, e anche molto meglio di quanto tanti siano disposti a credere, l'esatta posizione degli oggetti su un tavolo accanto al quale ero passato da bambino, e prima ho rievocato alcune scene spiegando come l'episodio in questione fosse diverso dal ricordo che ne conservo adesso.
È stata la mia memoria a fare di me lo studente preferito del Maestro Palaemon, e per questo credo che dipenda da essa l'esistenza del mio racconto, perché se il Maestro Palaemon non avesse avuto una preferenza per me, non mi avrebbe inviato a Thrax con la sua spada.
Secondo alcuni tale facoltà è legata a un debole discernimento... io non sono in grado di giudicarlo. Certamente essa comporta un altro pericolo, un pericolo in cui mi sono imbattuto molte volte. Quando torno con la mia mente al passato, come sto facendo ora e come ho fatto quando cercavo di ricordare il mio sogno, il passato si risveglia tanto perfettamente che mi sembra di rivivere quel giorno lontano, un giorno vecchio e nuovo, immutato tutte le volte che lo recupero, e le sue immagini sono tanto reali quanto me. Ancora oggi posso chiudere gli occhi ed entrare nella cella di Thecla come feci una sera d'inverno; e presto le mie dita sentiranno il calore del suo abito, mentre il profumo della sua persona mi riempirà le narici come l'aroma dei gigli riscaldati davanti a un fuoco. Le sfilo l'abito e mi sembra di abbracciare ancora quel corpo eburneo, mentre i suoi capezzoli premono contro la mia faccia...
Vedete? È facile sprecare ore e giorni in questi ricordi e talvolta io mi immergo in essi al punto da sentirmi drogato ed ebbro. Anche allora fu così. I passi che avevo sentito nella caverna degli uomini-scimmia echeggiavano ancora nella mia mente e per trovare qualche spiegazione tornai al mio sogno, ormai convinto di sapere da chi mi fosse venuto e speranzoso che mi rivelasse qualcosa di più sulle conoscenze di chi l'aveva plasmato.
Ancora una volta cavalcai il destriero mitrato dalle ali coriacee, mentre i pellicani volavano sotto di noi a secchi e rigidi colpi d'ala e i gabbiani stridevano.
Ancora una volta precipitai nell'abisso d'aria vorticante, in direzione del mare, restando sospeso per un certo tempo fra le onde e le nubi. Inarcai il corpo, abbassai la testa, lasciai che le gambe mi seguissero come uno striscione e fendetti l'acqua, vedendo infine fluttuare nell'azzurro limpido la testa avvolta da serpenti e la bestia dalle molte teste, quindi scorsi molto più in basso il vorticante giardino di sabbia. Le gigantesse levarono braccia simili a tronchi di sicomori e ogni dito terminava in un artiglio amaranto. Improvvisamente, io che fino ad allora ero stato cieco, capii per quale motivo Abaia mi avesse mandato quel sogno e avesse cercato di arruolarmi nella grande, finale guerra di Urth.
Ma a quel punto la tirannia della memoria sopraffece la mia volontà. Nonostante potessi vedere le odalische titaniche e il loro giardino e avessi la consapevolezza che si trattava solo di un ricordo, non riuscii a sottrarmi al loro fascino. Le mani mi stringevano come un pupazzo, e mentre me ne stavo così fra le meretrici di Abaia, fui sollevato dalla sedia nella taverna di Saltus; eppure, per altri cento battiti del cuore non riuscii a distogliere la mia mente dal mare e dalle sue donne dai capelli verdi.
— Dorme.
— Ha gli occhi aperti.
— Dobbiamo prendere la spada? — chiese una terza voce.
— Sì... potrebbe servire.
Le donne titaniche svanirono. Gli uomini vestiti di pelli di daino e di rozzi panni di lana mi tenevano fermo, e uno con il volto sfregiato mi puntava contro la gola il suo stiletto. L'uomo alla mia destra aveva preso Terminus est con la mano libera; era il volontario dalla barba nera che aveva aiutato a sfondare la porta murata.
— Sta arrivando qualcuno.
Lo sfregiato si allontanò. Sentii la porta sbattere, poi l'esclamazione di Jonas quando venne trascinato dentro.
— Questo è il tuo padrone, giusto? Bene, non ti muovere, amico, e non urlare, o vi ammazzeremo entrambi.
IX
IL SIGNORE DELLE FRONDE
Ci obbligarono a metterci con le spalle al muro e ci legarono le mani. Poi ci drappeggiarono i mantelli sulle spalle per nascondere i lacci, come se stessimo camminando con le mani dietro la schiena, e ci portarono nel cortile, dove un immenso baluciterio si dondolava sulle zampe e teneva sulla schiena un semplice howdah di ferro e corno. L'uomo che mi teneva per il braccio sinistro colpì la bestia nell'incavo del ginocchio con un pungolo per farla piegare, e noi venimmo costretti a salire.
Quando io e Jonas eravamo arrivati a Saltus, eravamo passati attraverso colline di detriti e scorie provenienti dalle miniere, colline composte soprattutto di mattoni e di pietra frantumata. Quando mi ero allontanato dal villaggio attratto dalla falsa lettera di Thecla, ero passato al galoppo in mezzo ad altre colline, nonostante il mio tragitto si fosse snodato soprattutto in mezzo alla foresta.
Quella volta passammo fra i mucchi di scorie dove non esistevano sentieri. Là, oltre a numerosi rifiuti, i minatori avevano abbandonato tutto quello che proveniva dal passato sepolto e che avrebbe potuto contaminare il villaggio e il loro mestiere. Ogni genere di immondizia era accatastata in mucchi alti anche dieci volte o più il baluciterio... statue oscene, deformi e corrose, e ossa umane con ancora attaccati frammenti di pelle rinsecchita e ciuffi di capelli. Erano diecimila, fra uomini e donne; aspirando a una resurrezione privata avevano reso i loro corpi imperituri e giacevano come ubriachi dopo una baldoria, con i sarcofaghi cristallini rossi, le membra abbandonate in un disordine grottesco, gli abiti imputriditi e lo sguardo fisso al cielo.
All'inizio io e Jonas avevamo rivolto delle domande ai nostri carcerieri, ma eravamo stati ridotti al silenzio con le percosse. Da quando il baluciterio ci aveva condotto in mezzo a quella desolazione, si erano tranquillizzati e così domandai loro dove fossimo diretti. Lo sfregiato rispose: — Nella foresta, casa degli uomini liberi e di belle donne.
Pensai ad Agia e chiesi se fossero al suo servizio. Lo sfregiato rise e scrollò la testa. — Il mio padrone è Vodalus dei Boschi.
— Vodalus!
— Ah — esclamò l'uomo. — Allora lo conosci. — Diede una gomitata all'uomo dalla barba nera che viaggiava con noi. — Vodalus ti tratterà sicuramente bene, dal momento che ti sei offerto tanto volentieri di straziare uno dei suoi servitori.
— Lo conosco davvero — dissi. Stavo per raccontare allo sfregiato il mio incontro con Vodalus e di come gli avessi salvato la vita l'anno prima di diventare capitano degli apprendisti, ma dubitai che Vodalus potesse ricordarsi di quell'episodio, perciò dissi solo che se avessi saputo chi serviva Barnoch non avrei mai accettato di torturarlo. Mentii, naturalmente; perché lo sapevo e avevo giustificato il pagamento con il pensiero che avrei potuto risparmiare a Barnoch qualche sofferenza. Fu una menzogna inutile; tutti e tre si misero a ridacchiare, compreso il guidatore che stava a cavalcioni del collo del baluciterio.
Quando smisero di ridere dissi: — Questa notte sono uscito dal paese spingendomi a nord-est. È quella la nostra direzione?
— Così eri andato là. Il nostro padrone era venuto a cercarti e ha fatto ritorno a mani vuote. — Lo sfregiato sorrise e compresi che si sentiva soddisfatto per aver portato a termine una missione in cui aveva fallito lo stesso Vodalus.
Jonas mormorò: — Siamo diretti a nord, come puoi constatare dal sole.
— Esatto — disse lo sfregiato, che doveva avere un buon udito. — Verso nord, ma non per molto. — Quindi, per occupare il tempo, mi descrisse il modo in cui il suo padrone trattava i prigionieri; per la maggior parte erano metodi incredibilmente primitivi, che generavano più effetti teatrali che vera sofferenza.
Come se una mano invisibile avesse tirato una tenda su di noi, l'ombra delle piante cadde sull'howdah. Il luccichio di miliardi di schegge di vetro restò indietro con gli occhi dei morti e ci addentrammo nella verde frescura della foresta. In mezzo a quei tronchi poderosi persino il baluciterio, nonostante fosse tre volte più alto di un uomo, appariva come una bestiola minuta e noi che viaggiavamo sulla sua groppa sembravamo i pigmei di una fiaba per bambini, diretti alla minuscola rocca di un re dei folletti.
Mi venne da pensare che quelle piante erano state ben poco più basse prima che io nascessi e che erano già così quando io da bambino giocavo fra i cipressi e le tombe tranquille della nostra necropoli. E moltissimo tempo dopo la mia morte, sarebbero rimaste ancora uguali, a bere l'ultima luce del sole morente. Compresi che non aveva che pochissimo peso, sulla bilancia delle cose, il fatto che io vivessi o morissi, nonostante la mia vita per me fosse preziosa. E accompagnato da simili pensieri mi costruii uno stato d'animo che mi permise di afferrare anche la più piccola possibilità di sopravvivenza, nonostante non mi curassi molto di salvarmi. Fu grazie a tale stato d'animo che vissi, e con me è stato tanto amichevole che mi sono sforzato spesso di ritrovarlo, anche se non sempre vi sono riuscito.
— Severian, come va?
Era stato Jonas a interrogarmi. Lo guardai, credo, con un certo stupore. — Bene. Ti sembrava che stessi male?
— Per un momento sì.
— Stavo solo pensando che questo posto mi è famigliare e mi sforzavo di capirne il motivo. Mi ricorda molti giorni estivi nella Cittadella. Queste piante sono alte quasi quanto le torri che si ergono laggiù, molte delle quali sono avvolte dall'edera, così che nelle belle giornate estive la luce, in mezzo a loro, assume questa tonalità smeraldina... e anche qui c'è silenzio...
— Sì?
— Tu devi aver viaggiato a lungo sulle barche, Jonas.
— A volte.
— È una cosa che ho sempre desiderato poter fare e mi è capitato di provarlo solo quando io e Agia abbiamo preso il traghetto per i Giardini Botanici e quando abbiamo attraversato il Lago degli Uccelli. Il dondolio è molto simile a quello di questa bestia, ed è altrettanto silenzioso, tranne quando capita che un remo sollevi uno spruzzo immergendosi in acqua. Adesso ho la sensazione di navigare attraverso la Cittadella.
Nel sentire quelle parole Jonas assunse un'espressione tanto seria che io scoppiai a ridere e mi sollevai, con l'intenzione, credo, di guardare oltre la fiancata dell'howdah per dimostrare con qualche commento che mi stavo solo abbandonando alle mie fantasie.
Tuttavia, mi ero appena alzato quando lo sfregiato si levò in piedi a sua volta e tenendo la punta dello stiletto a un pollice dalla mia gola mi ordinò di sedermi. Per fargli dispetto scossi il capo.
Lo sfregiato mosse l'arma. — Siediti oppure ti sbudello!
— E perdere in tal modo la gloria di consegnarmi? Non credo che lo faresti. Aspetta che gli altri riferiscano a Vodalus che mi avevi preso e che mi hai pugnalato mentre avevo le mani legate.
In quell'istante il mio destino segnò una svolta. L'uomo con la barba che teneva Terminus est cercò di sguainarla e non conoscendo il sistema giusto per snudare una spada tanto lunga — che consiste nell'afferrare l'impugnatura con una mano e la parte superiore del fodero con l'altra e nell'allargare le braccia per estrarre la lama — provò a tirare verso l'alto, come se stesse strappando un'erbaccia in un campo. Mentre stava eseguendo quella goffa manovra fu colto alla sprovvista da un sobbalzo del baluciterio e urtò lo sfregiato. I fili della lama, talmente affilati da poter tranciare un capello, tagliarono i due uomini; lo sfregiato si gettò all'indietro e Jonas, puntando un piede dietro il suo e premendogli la gamba con la pianta dell'altro piede, riuscì a gettarlo oltre il parapetto.
Nel frattempo, l'uomo con la barba aveva lasciato cadere Terminus est e si stava guardando la ferita, che era molto lunga sebbene superficiale. Conoscevo quell'arma come conosco la mia mano; mi ci volle solo un istante per accovacciarmi e per girarmi, quindi afferrai l'impugnatura e, incuneandola fra i talloni, tagliai le cinghie che mi legavano i polsi. In quel momento l'uomo sguainò il pugnale e forse mi avrebbe ucciso se Jonas non lo avesse colpito in mezzo alle gambe.
Il nostro carceriere si piegò in due e, prima ancora che potesse raddrizzarsi, io ero in piedi e brandivo la mia spada.
La contrazione dei muscoli lo fece scattare, come succede talvolta quando il cliente non viene fatto inginocchiare; penso che lo spruzzo di sangue fu per il guidatore la prima avvisaglia di quanto era accaduto, dal momento che il tutto si era svolto tanto rapidamente. Si volse a guardarci e io lo abbattei con un colpo da maestro, mulinando la spada con una sola mano in un fendente orizzontale mentre mi sporgevo dall'howdah.
La sua testa era appena caduta quando il baluciterio passò in mezzo a due grandi piante, tanto vicine da farlo sembrare un topo che passasse in un crepaccio del muro. Dall'altra parte degli alberi si estendeva la radura più aperta che avessi mai visto in quella foresta... vidi erbe e felci, e sprazzi di luce, non schermati dal verde e ricchi come l'orpimento, scherzavano sulle zolle. In quel luogo Vbdalus aveva fatto erigere un trono protetto da un baldacchino intrecciato di rampicanti fioriti e lo vidi là, seduto con la Castellana Thea al fianco, pronto a giudicare e a ricompensare i suoi seguaci.
Jonas non vide niente di tutto questo, perché era ancora disteso sul fondo dell'howdah e si stava liberando le mani con il pugnale. Io invece osservai tutto benissimo, e mi tenevo diritto, bilanciandomi contro gli ondeggiamenti del baluciterio e tenendo alta la spada che era rossa di sangue fino all'impugnatura. Cento volti si girarono verso di noi, incluso quello dell'esultante seduto sul trono e quello ovale della sua consorte; e nei loro sguardi vidi quello che essi dovevano avere davanti agli occhi: il grande animale che trasportava sul collo, a cavalcioni, un uomo decapitato, e che aveva le zampe anteriori intrise di sangue; e poi vidi me stesso, sulla sua groppa, con la spada e il manto di fuliggine.
Se fossi sceso e avessi cercato di scappare, o se avessi provato a incitare il baluciterio per farlo accelerare, sarei morto. Invece, grazie allo stato d'animo che si era impadronito di me, rimasi immobile e l'animale, senza che nessuno lo guidasse, continuò a farsi strada fra i seguaci di Vodalus che si scostavano in fretta al suo passaggio fino a quando si trovò davanti al podio che fungeva da sostegno per il trono e il baldacchino. Allora si fermò e il morto cadde in avanti ai piedi di Vodalus. Io, sporgendomi dall'howdah, colpii la bestia dietro una zampa e la costrinsi a inginocchiarsi.
Vodalus sorrise, un sorriso a denti stretti che diceva molte cose e fra esse il divertimento. — Ho mandato i miei uomini a prendere il tagliatore di teste e vedo che ci sono riusciti — disse.
Salutai con la spada, tenendo l'impugnatura davanti agli occhi come ci era stato insegnato a fare quando un esultante veniva ad assistere a un'esecuzione nel Grande Cortile. — Sieur, ti hanno portato l'anti-tagliatore di teste... una volta la tua testa sarebbe rotolata sul terreno da poco scavato se non fosse stato per me.
Allora Vodalus mi guardò con più attenzione, fissò il mio volto invece della spada e del mantello e dopo un istante disse: — Sì, eri proprio tu. È trascorso tanto tempo?
— Abbastanza, sieur.
— Ne parleremo in privato, ma adesso ho degli impegni più pressanti. Mettiti lì. — Mi indicò un punto a sinistra del podio.
Scesi dal baluciterio e Jonas mi seguì, e due stallieri portarono via l'animale. Aspettammo e sentimmo Vodalus impartire ordini e illustrare i suoi piani, ricompensare e punire, per circa la lunghezza di un turno di guardia. Tutta la tanto esaltata solennità delle colonne e degli archi non è altro che un'imitazione, in sterile pietra, dei tronchi e dei rami della foresta, e in quel momento mi parve che l'unica differenza fosse nel colore grigio o bianco delle une e verde pallido degli altri. Allora credetti di capire per quale motivo tutti i soldati dell'Autarca e tutti i seguaci degli esultanti non riuscivano a vincere Vodalus... lui occupava la fortezza più imponente di Urth, molto più grande della nostra Cittadella, alla quale l'avevo paragonata poco prima.
Infine congedò la folla, rimandando tutti, uomini e donne, al loro posto, e scese dal podio per parlare con me, piegandosi come io avrei potuto fare con un bambino.
— Una volta mi hai servito — disse. — Perciò ti verrà risparmiata la vita, qualsiasi cosa succeda, anche se forse sarà necessario che tu resti qui per qualche tempo. Sapendo che adesso la tua vita non è più in pericolo, mi servirai ancora?
Il giuramento di fedeltà all'Autarca che avevo pronunciato durante la mia nomina ad artigiano non era abbastanza forte da resistere al ricordo di quella sera nebbiosa dalla quale ho iniziato la mia narrazione. I giuramenti sono semplicemente deboli espressioni d'onore in confronto ai benefici che concediamo ad altri, vere e proprie espressioni dello spirito. Se salviamo una persona una volta, siamo suoi per tutta la vita. Ho sentito dire più volte che la gratitudine non esiste. Non è vero... quelli che lo affermano l'hanno sempre cercata nella direzione sbagliata. Chi è in grado di beneficare un altro, si mette, per un istante, al livello del Pancreatore, e la gratitudine di tale elevazione lo costringerà a servire l'altro per tutti i suoi giorni. Fu questo che dissi a Vodalus.
— Bene! — disse, battendomi un colpo sulla spalla. — Vieni. Non lontano da qui c'è un pasto che ci aspetta. Se tu e il tuo amico mangerete insieme a me, vi spiegherò che cosa occorre fare.
— Sieur, ho già disonorato una volta la mia corporazione. Ti chiedo solo di non essere obbligato a farlo di nuovo.
— Niente di quello che farai verrà risaputo — rispose Vodalus. E per me fu sufficiente.
X
THEA
Accompagnati da una dozzina di persone lasciammo a piedi la radura e a mezza lega di distanza trovammo una tavola apparecchiata fra le piante. Fui fatto sedere alla sinistra di Vodalus e mentre gli altri mangiavano, io fingevo di fare altrettanto, ma in realtà mi saziavo gli occhi guardando lui e la sua dama, che tante volte avevo richiamato alla memoria mentre giacevo sulla mia branda, nel dormitorio degli apprendisti alla torre.
Quando l'avevo salvato, mentalmente ero ancora un ragazzo, e a un ragazzo gli adulti sembrano maestosi a meno che non siano veramente bassi. Lì mi resi conto che Vodalus era alto come Thecla, o forse di più, e che la sorellastra di Thecla, Thea, era alta quanto lei. Allora capii che appartenevano veramente al sangue eletto, e che non erano semplici armigeri come sieur Racho.
Era di Thea che mi ero innamorato, all'inizio, e l'avevo adorata perché apparteneva all'uomo che avevo salvato. E avevo amato Thecla, dapprincipio, perché mi ricordava Thea. A quel punto, come l'autunno muore e muoiono l'inverno e la primavera e ritorna l'estate che è la fine e il principio dell'anno, amavo nuovamente Thea perché mi ricordava Thecla.
— Apprezzi molto le belle donne — commentò Vodalus. Io abbassai gli occhi.
— Non ho avuto molte occasioni di frequentare una compagnia tanto raffinata, sieur. Ti prego di perdonarmi.
— Condivido il tuo apprezzamento, perciò non c'è niente da perdonare. Ma mi auguro che tu non stessi studiando quella gola snella per ucciderla.
— Mai, sieur.
— Mi fa piacere sentirtelo dire. — Vodalus prese un vassoio colmo di tordi, ne scelse uno e lo posò sul mio piatto. Era un evidente favoritismo. — Tuttavia devo ammettere di essere un po' stupito. Credevo che un uomo della tua professione ritenesse noi poveri esseri umani più o meno come il macellaio considera il bestiame.
— Questo non saprei dirlo, sieur. Non sono stato allevato per diventare macellaio.
Vodalus rise. — Toccato! Quasi mi rammarico che tu abbia acconsentito a servirmi. Se avessi scelto di restare semplicemente mio prigioniero, avremmo avuto molte piacevoli conversazioni mentre ti avrei usato, come era mia intenzione fare, per barattare la vita della sfortunato Barnoch. Così invece, domani mattina te ne andrai. Tuttavia penso di avere per te un incarico che ben si addice alle tue inclinazioni.
— Se si tratta di un incarico impartito da te, sieur, non può che essere tale.
— Sei sprecato sul patibolo. — Vodalus sorrise. — Presto ti troveremo un lavoro migliore. Ma se vorrai servirmi bene, dovrai capire un po' la posizione dei pezzi sulla scacchiera e lo scopo della partita che stiamo giocando. Chiamiamo le due parti bianco e nero e, in onore dei tuoi abiti, così che tu sappia bene da che parte si trova il tuo interesse, noi saremo il nero. Sicuramente ti è stato insegnato che noi neri siamo dei banditi e dei traditori, ma hai un'idea di quello che stiamo cercando di fare?